Il Viaggio della memoria


Agosto 2015

Prologo


Accanto al mio letto c’è una cassa di legno scuro con la serratura di ferro e una maniglia di cuoio, sopra è posta una targhetta con impresso il mio cognome.

Erano le 18,30 dell’otto settembre del 1943 quando Badoglio annunciò l’armistizio alleandosi con gli Americani; la seconda guerra mondiale non era ancora finita e l’esercito italiano dislocato sul fronte restò allo sbando, così 815.000 soldati furono fatti prigionieri dall’ex alleato tedesco e destinati ai lager con la qualifica di: “Internati militari italiani” (definiti con l’acronimo IMI), vennero privati di tutti diritti stabiliti dalla convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra e avviati ai lavori pesanti, dove, tra terribili sofferenze, la sopravvivenza era un fortunato evento.

 Sul fronte delle Alpi c’era anche mio padre, che rifiutatosi di aderire alla repubblica sociale italiana, venne disarmato e caricato su un vagone diretto verso un campo di concentramento.

Con sé aveva solo una cassa di legno scuro con la serratura di ferro, una maniglia di cuoio e una targhetta con impresso il cognome, dentro poche cose che sarebbero dovute bastargli fino alla fine della prigionia.

Il treno si fermò a Buchenwald e dopo estenuanti appelli gli IMI furono mandati al campo di lavoro secondario di Taucha nella Sassonia Settentrionale, dove comandava la Luftwaffe. Mio Padre restò lì a sperimentare come il lavoro potesse essere un efficace mezzo di sterminio. Denutriti, nel gelo, senza riparo, con vestiti inadeguati, picchiati a morte per ogni piccolezza o per sadico divertimento, così i prigionieri passavano i loro giorni, fin quando l’undici aprile del 1945 Buchenwald e i campi secondari furono liberati dagli alleati americani. Mio padre, alto un metro e ottantadue quel giorno pesava quarantatré chili e per lui non era ancora finita. L’Italia non aveva organizzato il rientro in patria e la politica di allora non era interessata al destino degli IMI, qualcuno avrebbe voluto lasciarli in Russia, altri li guardavano con sospetto confondendoli con i collaborazionisti dei tedeschi.  Stipato in carri bestiame mio padre fu trasportato da Taucha (Lipsia) fino a Königsberg (l’attuale Kaliningrad) nel corridoio di Danzica, poi, attraverso la Polonia fino in Ungheria, quindi in Austria e finalmente a casa. 

Mio padre varcò la porta della sua casa di Udine nel settembre del 1945, magro , debilitato dalla fatica e da una pleurite mal curata, con ancora stretta nella mano una cassa di legno scuro con la serratura di ferro e una maniglia di cuoio.

Sono trascorsi settant’anni dalla liberazione e il 2015 è l’anno della memoria, da qualche tempo pensavo di ripercorrere il viaggio che mio padre fece da deportato e questo è il momento giusto.

Il viaggio

Nella tasca della giacca da motociclista di Rossana c’è l’invito a partecipare a un raduno di sidecar in una località del sud dell’Ungheria dal nome simile a un scioglilingua, Kiskunfelegyhaza, che diverrà la nostra prima tappa.

La partenza è prevista per il giorno tredici agosto e dopo una permanenza al raduno dei sidecar di due giorni abbiamo progettato di riprendere il viaggio verso la Slovacchia seguendo le strade dei monti Tatra per raggiungere la Polonia, fermarci a Cracovia e visitare anche il campo di sterminio di Auschwitz – Birkenau, oltre alle antiche miniere di sale. L’altra meta è il parco di Białowieża diviso tra Polonia e Bielorussia dove, la foresta, che da ottomila anni non ha subito l’intervento dell’uomo, è diventata il rifugio degli ultimi bisonti europei.  L’itinerario poi segue il confine con la Russia per raggiungere Danzica e Leba sul Mar Baltico. La nostra strada poi scende in Germania verso Berlino, Lipsia e Taucha, per entrare in Repubblica Ceca a Praga e infine in Austria verso Schladming, ultima tappa del nostro viaggio. Scegliendo così le nostre mete seguiamo il percorso inverso del disagevole rientro in patria di mio padre.

La partenza

Mercoledì 12 agosto ero ancora in ufficio quando alle 17,30 ricevo la telefonata di Ferruccio che mi dice: “Siamo qui a Flambro, davanti a una casa bianca, spero di non aver sbagliato”.   

I nostri sidecar sono già carichi e pronti per la partenza di domani e mentre decidiamo dove andare a cena arrivano Tiberio e Arianna, ma la Goldwing è scarica, hanno deciso di non seguirci.  Durante la cena, tra vino, bistecche e racconti motociclistici, Tiberio soffre, trattenendo l’entusiasmo per i viaggi, ma poi cede dicendo: “Veniamo anche noi, ma solo fino al raduno in Ungheria”.

Il 13 agosto ci aspetta la prima tappa, settecentoquindici chilometri fino a Kiskunfelegyhaza. 

Il luogo d’incontro della carovana è nei pressi di Trieste; un cappuccino, un croissant e un caloroso incoraggiamento all’Ural, poi comincia il viaggio sotto il sole d’agosto, così tre sidecar si dirigono inesorabili verso la Puszta Ungherese.

Viaggiare in autostrada è noioso mentre l’asfalto sotto le nostre ruote scorre a novanta chilometri l’ora; intorno a noi i boschi alpini della Slovenia mitigano il caldo insopportabile, poi scendiamo nella pianura, che conduce al confine con l’Ungheria e il sole arroventa le mie braccia mentre stringo tra le mani il manubrio del sidecar. Siamo nei pressi di Budapest e abbandoniamo l’autostrada per dirigerci verso la nostra meta, ma ormai il sole è calato, e l’appetito aumentato. Alla prima insegna di una trattoria ci ingozziamo di birra e gulasch facendo notte, la nostra meta dista ancora settanta chilometri, per cui ci infiliamo nel primo motel rinviando al mattino gli ultimi chilometri per Kiskunfelegyhaza.

La mattina inizia il rito dello scarica-carica e per quanto mi sforzi di mantenere gli stessi spazzi, i bagagli cambiano il loro volume assumendo diverse forme e nuovi ingombri. 

Alla prima città che incontriamo ci fermiamo a fare acquisti perché Tiberio e Arianna hanno portato i sacchi a pelo, ma sono sprovvisti di tenda e materassini.

Mentre il gruppo rovista tra gli scafali del super mercato io resto di guardia ai sidecar, che inevitabilmente attirano la curiosità dei passanti; i più giovani guardano la “simil Indian” color legno, che fa molto americano on the road; le copie adulte e benestanti osservano l’Honda Goldwing e discutono su come potrebbero stare comodi anche i loro figli nel carrozzino; a osservare il mio sidecar si ferma un vecchio polacco, che a parole e gesti mi fa capire che in passato guidava un Ural militare, poi con attenzione analizza ogni novità e mi dice cose che non capisco, ma sorride e allora anch’io sorrido e annuisco, così restiamo in compagnia senza capirci fin quando il gruppo ritorna con la tenda.

La Puszta è bollente, il termometro segna quaranta gradi quando arriviamo di fronte al cartello di Kiskunfelegyhaza.  Un lungo viale alberato conduce al centro della città, dove uno striscione con raffigurato un sidecar indica che siamo arrivati nel posto giusto, ma poi al primo incrocio le indicazioni spariscono, allora, affidandoci alla fortuna, decidiamo di girare a sinistra, ma sbagliamo, torniamo indietro e proviamo a destra procedendo fino a uscire dalla città senza successo. Demoralizzati ci fermiamo a chiedere informazioni, però nessuno capisce cosa vogliamo, finché una ragazza in bicicletta ci indica di proseguire e poi svoltare dentro il bosco.

Il raduno dei sidecar

Un polveroso sterrato s’inoltra nel fitto del bosco fin quando incontriamo il banchetto dell’entrata al raduno; quattromila fiorini, circa dodici euro, è il costo dell’entrata più campeggio per due persone. Indossata la maglietta con il logo del raduno e al polso il bracciale di riconoscimento che permette l’ingresso, attraversiamo la radura dove si svolge la manifestazione, poi arriviamo al capannone dove si serve birra e si mangiano salsicce alla griglia.

I biker non sopportano l’afoso caldo della Puszta e stanno seduti all’ombra a dorso nudo mostrando i tatuaggi e scolando pinte di birra bionda, mentre altri si esibiscono in evoluzioni con i loro sidecar sollevando vortici di polvere.

Noi proseguiamo nel fitto del bosco alla ricerca delle tende degli altri sidecaristi italiani, arrivati al raduno prima di noi, ma non troviamo nessuno, provo a prendere contatto con Omar (il capobanda) e scopro di essere proprio davanti alla sua tenda, ora il campo italiano è al completo.

Non restiamo soli per  lungo tempo, l’altro gruppo arriva quasi subito per trascinarci a una festa un po’ zingara e un po’ medievale. In un’immensa radura, dove il sole non dà tregua, cavalli non sellati e cavalieri dall’aspetto poco raccomandabile, si esibiscono in combattimenti e corse sfrenate alzando dalla terra secca polvere, che si appiccica sulla mia faccia sudata. In lontananza scorgo un accampamento di tende bianche, che sembra ospitare un antico esercito, ma appena raggiunto scopro che è un mercato dove si vendono pelli, archi e frecce, e ornamenti vari; qui si tratta sul prezzo con uomini dalle lunghe barbe e dai visi bruciati dal sole, vestiti con tuniche bianche strette sui fianchi da cinture di cuoio, poi si beve una pinta di birra che lava la polvere dalla gola.

Al calar del sole facciamo ritorno ai sidecar, prima di partire sistemo sulla moto le bianche pelli di pecora che ho comprato trattando il prezzo con un omone dalla vigorosa stretta di mano, ora l’Ural ha un aspetto più barbaro e i nostri sederi stanno più comodi.

Passiamo la notte tra concerti heavy metal e calcio balilla, intervallando i divertimenti con boccali di birra, manca poco al mattino quando ci infiliamo nelle tende mentre la musica continua.

Il giorno dopo usciamo dai sacchi a pelo strisciando e la distanza per raggiungere i gabinetti sembra enorme, la birra non perdona.

Oggi l’altro gruppo fa ritorno in patria, baci e abbracci, mentre i nostri tre equipaggi si fermano ancora un giorno.

Il programma odierno del raduno prevede tour con visita al palazzo municipale, ma io e Rossana preferiamo restare a osservare la vita che si svolge pigra all’interno del campeggio; vicino a noi c’è un turco zoppo che è arrivato fin qui con una vecchia vespa; una Yamaha Super Tenere con carrozzino da cross espone con fierezza la targa di partecipazione alla Parigi Dakar del 2013.

Di fronte alla nostra tenda c’è un tavolo da picnic che utilizziamo per preparare un’insalata: “Pomodori, cetrioli, rape rosse e formaggio”, nel mentre una copia di ungheresi si aggiunge al nostro desco. La panca s’incurva sotto il peso dei nostri commensali quando sedutisi estraggono da una borsa il famoso salame ungherese e una bottiglia di pálinka di cui si dice che: “ A piccole dosi una medicina, a grandi dosi una cura”, parlano solo ungherese, ma riusciamo a capire che è tutta roba fatta in casa, le mele dell’orto distillate come si faceva una volta e anche il povero maiale di cui non si spreca nulla.

Durante la nostra conversazione diventata un comprensibile linguaggio per merito dei numerosi brindisi, osservo che nella tenda vicino stanno lavorando con impegno per svuotare delle angurie ricavandone degli speciali caschi da parata con tanto di marchio di fabbrica.

E’ la mattina di lunedì diciassette agosto e tutti stanno togliendo le tende, mentre il cielo sempre più scuro minaccia pioggia, s’alza il vento e in pochi minuti la temperatura scende dai quaranta ai venti gradi, poi inizia uno scroscio d’acqua accompagnato da tuoni e fulmini e la polvere della Puszta si trasforma in fango. Tute anti pioggia indossate, bagagli caricati, dove c’era la nostra tenda resta soltanto un po’ d’erba schiacciata, siamo pronti per la partenza e Ferruccio e Patrizia ci seguiranno fino a Cracovia, invece Tiberio e Arianna fanno ritorno in Italia.

CRACOVIA e le miniere di sale

Attraversando la Slovacchia ci lasciamo alle spalle il mal tempo e cominciamo ad attraversare i monti Tauri sotto un cielo azzurro.  Seguendo la strada di montagna non incontriamo picchi rocciosi o profondi canyon ma fitti boschi di conifere e vasti pascoli.

I nostri sidecar avanzano verso Cracovia e dopo aver smarrito e ritrovato la giusta strada raggiungiamo il confine con la Polonia. Ferruccio invia una foto e telefona agli amici piemontesi, perché gli increduli avevano scommesso che non sarebbe arrivato fin qui: “Sono in Polonia , è il viaggio più lungo che ho fatto con il sidecar” .

Non siamo lontani da Cracovia quando un ingorgo ci ferma sulla strada d’accesso, con i sidecar non possiamo sgusciare tra le auto, per cui consultiamo le carte della zona e poi impostiamo la rotta con il navigatore, che elabora e segnala che il nuovo tragitto ha allungato di un’ora il viaggio; non abbiamo dubbi, attraversiamo la ciclabile per alcuni metri in controsenso e imbocchiamo una stretta strada, che ci conduce tra campagne e fattorie fino alla periferia di Cracovia.

L’asfalto bagnato dalla pioggia riflette la luce delle insegne luminose, al semaforo devo girare a destra e poi subito a sinistra, poi continuare dritto verso il centro di Cracovia. Ferruccio mi segue, ma non si accorge della svolta a sinistra, mi fermo certo che capirà di aver sbagliato e invece accelera credendo di raggiungermi, devo fermarlo, lo chiamo al cellulare e dopo vari tentativi mi risponde dicendo:

“Dove sei ? Rallenta, non riesco a raggiungerti.”     

“Veramente, io sono fermo che ti aspetto al primo semaforo, hai mancato la prima svolta a sinistra, ti aspetto qui , in via Krasińskiego al numero 6”.

Aspetto un quarto d’ora ed ecco ricomparire il sidecar color legno e Ferruccio, che con gli occhi sgranati dice:

“Credevo che non ci saremmo più incontrati “.

Ormai è buio ed è necessario trovare un posto dove pernottare, mi fermo al primo distributore e mentre riempio il serbatoio di benzina e cerco sul sito internet pensioni e alberghi , vedo un taxi parcheggiato proprio davanti a me, così penso che nessuno meglio di un taxista può indicarmi una pensione.  Bastano poche parole in inglese: “ Rooms or Hotel not  exspensive”, che mi fa segno di seguirlo.

Trovate le stanze e il parcheggio custodito per i sidecar decidiamo di fermarci tre notti per visitare la città e poi le miniere di sale a Wieliczka e a Oświęcim il campo di sterminio di Auschwitz–Birkenau, quindi saliamo in camera per sistemare i bagagli per poi ritrovarci nella hall del meublé e ripartire in taxi alla volta del centro di Cracovia.

 Rynek Glowny è la piazza del mercato antico, dopo aver lottato con un bancomat che non voleva darci la moneta locale ,  i złotych, ci accomodiamo in un ristorante all’aperto dove oltre a mangiare si può ascoltare musica e guardare il passaggio di carrozze trainate da cavalli bianchi che accompagnano i turisti spendaccioni a fare una memorabile passeggiata notturna con il signorile aplomb che noblesse oblige,  noi invece andiamo a bere il bicchiere della staffa al Hard Rock cafe.

Le miniere di sale

Sotto Wieliczka c’è un altro paese sprofondato a 327 metri nel sottosuolo, che dal 1200 al 1996 era popolato da minatori.

Scendiamo gli ottocento gradini che conducono alle gallerie della miniera, la pietra delle gallerie è talmente lucida da sembrare bagnata, ma è il sale contenuto nelle rocce a renderle così brillanti. Ora il cunicolo si allarga in una grotta dove un altare e delle immagini sacre scolpite nel sale proteggono la vita dei minatori. Poi in un lago sotterraneo ci accoglie con una sonata di Chopin improvvisamente rotta da cupe esplosioni che ricordano il pericolo causato dai gas di metano.

Ancora bui cunicoli ci portano nelle profondità della terra, poi incontriamo un grande salone con lampadari fatti di gocce di sale talmente trasparenti da sembrare cristallo, un altare scolpito nella roccia e la riproduzione dell’ultima cena di Leonardo Da Vinci incisa nella pietra.

Si racconta che i minatori vivessero nella miniera e per questo trasformavano i cunicoli in una città sotterranea costruendo chiese e saloni, scolpendo opere d’arte senza nome.

Scavare nelle viscere della terra era un ambito lavoro, perché la paga era buona e poi una volta al mese il minatore poteva tornare nel mondo di sopra portando con se un prezioso sacco di sale.

Per ore abbiamo percorso tunnel sotterranei , ma è ben poco rispetto ai 350 chilometri di gallerie di questa città sotterranea. Quando siamo ritornati in superficie il cielo era grigio e sembrava più alto, mentre le gocce di pioggia lavavano il viso dal sale.

Passeggiando per Cracovia

Passeggiamo in quello che ora è patrimonio dell’umanità , tra antichi palazzi e chiese scintillanti d’oro e nel castello di Wawel dove dimora la “Dama con Ermellino”, circondata dai giardini del Planty.  Attraversando il ponte sulla Vistola raggiungiamo “La Piazza Degli Eroi Del Ghetto”, dove l’immagine di una bambina che porta con sé una sedia, ha ispirato l’opera delle settanta grandi sedie di bronzo. E’ qui che i nazisti concentravano gli ebrei di Cracovia prima di trasportarli ai campi di sterminio ed è qui che venivano ammucchiati i loro mobili, i vestiti e tutto ciò che ogni famiglia possedeva e mai più sarebbe servito.  

Non omnis moriar, i miei possedimenti

Prati di tovaglie, roccaforti di armadi,

Distese di lenzuola, preziosa biancheria

E vesti, vesti chiare mi sopravviveranno.

Non lascio alcun erede, che la tua mano frughi

Tra le mie cose ebree, signora Chominowa,

Donna di Leopoli, prode moglie di una spia,

Lesta delatrice, madre di un Volksdeutcher.

Adesso sono tue, perché lasciarle a estranei.

Zuzanna Ginczanka

Come Pellegrini seguiamo il muro del ghetto, fino ad arrivare alla fabbrica dell’industriale tedesco Oskar Schindler, che nel 1942 assiste a un feroce raid nazista e da quel momento, utilizza la sua posizione nel partito, per salvare il maggior numero possibile di ebrei assumendoli nella sua industria di munizioni. Sulla targa in pietra scura c’è scritto:

Chiunque salva una vita, salva il mondo intero”  


Schindler ne salvò 1.117.

Auschwitz – Birkenau

Una rosa rossa è prigioniera del filo spinato nel campo di sterminio di AuschiWitz.

Sopra la porta d’entrata, la scritta in ferro: “Il Lavoro rende liberi - Arbeit macht frei ”  è un oscuro enigma che invita a sperare, poi cala il silenzio perché l’unica soluzione è una faticosa morte.

Gruppi di silenti turisti si muovono tra i lugubri fabbricati fatti di scuri mattoni dove i più atroci tormenti non avevano soluzioni. Una targa nera segna il  blocco 11 dove venivano rinchiusi i detenuti in attesa di essere fucilati, rei di aver rubato una patata o di aver usato più vestiti del consentito  per sopportare il gelo dell’inverno. Nel dicembre del 1942 il blocco 11 venne destinato agli esperimenti medici  e le sue finestre vennero oscurate.

Nel blocco 24 al piano terra c’era un orchestra che suonava per non morire, accoglieva i derelitti che arrivavano al campo di sterminio e accompagnava quei miseri corpi che tornavano liberi attraverso i camini dei forni crematori.

Auschwitz è collegato a Birkenau da una ferrovia ed è qui che venticinquemila persone lottavano  per non trovarsi tra quelle  mille anime che ogni giorno abbandonavano questo mondo lasciando il loro posto ad altre mille che arrivavano stipate nei  vagoni bestiame con le porte sigillate.  Per giorni, uomini donne e bambini viaggiavano accalcati senza poter riposare, senza cibo né acqua, rinchiusi tra i loro escrementi. 

Quando la porta s’apriva il fetore era insopportabile e quegli uomini, quelle donne e quei bambini scendevano con gli occhi feriti dalla luce e la mente persa nel nulla, mentre altri restavano immobili sul pavimento del vagone, perché non ce l’avevano fatta.

L’orchestra suonava e le SS picchiavano più forte per dividere le famiglie, gli uomini avevano il loro inferno,  le donne il loro e  anche ai bambini era riservato uno speciale inferno, ma per tutti  la vita era finita, pochi sopravvivevano più di un anno.

I primi ad arrivare furono i membri della resistenza polacca e gli  intellettuali comunisti, poi gli omosessuali, gli Ebrei, gli zingari, e anche delinquenti comuni. 

Dall’agosto del 1941 la leadership nazionalsocialista tedesca decise lo sterminio della popolazione ebraica, la cosi detta: “Soluzione finale della questione ebraica - Endlösung der Judenfrage” un eufemismo per mimetizzare il genocidio come si trattasse di un problema di portata mondiale.

Seduto su una pietra, residuo dei forni crematori, ascolto uno spiritual che un gruppo di turisti americani intona; lontani, altri gruppi vagano silenziosi su questo terreno che fu dominio dell’inferno. Vorrei andarmene e neppure sfiorare questo suolo, ma non devo dimenticare ciò che non ha senso e che mai lo avrà; la disperazione ha origine dal malessere popolare che giustifica la violenza con ideali di razza,  fanatismo patriottico e radicalismo religioso, di cui  la dittatura diviene esecutore.

Seduto su queste pietre nere di fumo sento il  vento dell’est  che porta i ricordi di un altro viaggio,  Sarajevo,  Srebrenica e poi  voci scritte sui muri : “J’M YOUR BEST FRIEND J KILL YOU FOR NOTHING – Bosine 94”.

Usciamo da qui per ritornare a Cracovia ed infilarci in una birreria dove una caraffa di birra torbida e fresca, con la schiuma densa come panna, rinfresca anche i mie pensieri.

La sera il quartiere ebraico è affascinate, c’è luce , musica e profumo di kebab e zuppa di fagioli. Cercando il miglior ristorante, la curiosità mi spinge ad entrare in un vecchia e polverosa libreria.

Il proprietario sta seduto in un angolo scuro del negozio e indossa una kippah bianca, rovisto tra i libri ammucchiati qua e là per genere o per lingua, tra le traduzioni italiane c’è un unica edizione numerata delle poesie di Zuzanna Ginczanka,  uccisa a soli ventisette anni e diventata simbolo di tutte le vite spezzate dal nazismo, dalle dittature e dall’insensatezza della guerra;  soffio via la polvere e leggo:

Sono

Nata                           
dalla polvere,
non ritornerò
polvere.
Non sono discesa
dal cielo
e non tornerò in cielo.
Io stessa sono il cielo
come una volta di vetro.
Io stessa sono la terra
come fertile suolo.
Non sono fuggita
da alcun luogo
e non tornerò
laggiù.
A parte me stessa non conosco altra lontananza.
Nel turgido polmone del vento
e nel cuore indurito delle rocce
devo
me stessa
qui
dispersa
ritrovare.

Białowieża


È la mattina dei saluti, ha smesso di piovere e il cielo è ancora grigio, i sidecar sono pronti, Ferruccio Patrizia  riprenderanno il loro viaggio verso sud per tornare a casa, noi proseguiamo verso nord per raggiungere la più grande e antica foresta d’Europa divisa tra Bielorussia e Polonia.

 Abbandoniamo Cracovia lungo vie secondarie, inoltrandoci  per 500 chilometri nella pianura polacca tra pascoli e fattorie. Viaggiare lentamente in questo sereno ambiente campestre ci fa, ancor di più, apprezzare il nostro sidecar, che ben si adatta a questi luoghi ricordando tempi passati. Una vecchia ferrovia costeggia la nostra strada, forse il convoglio ferroviario che trasportava verso casa i soldati  italiani liberati dai campi di concentramento si è fermato qui, e questa pianura è quella di cui parlava mio padre,  dove gli IMI scavavano con le mani rape e patate, mentre i contadini polacchi guardavano assecondando questa povera razzia.

La strada poi si restringe e penetra una fitta foresta di abeti rossi, intervallata da macchie di bianche betulle, poi  grandi querce e corsi d’acqua che scorrono lentamente verso il mar Baltico.

Ogni sentiero che s’inoltra nel fitto della foresta ha un cartello con la mappa che spiega come raggiungere i luoghi dove il bisonte europeo dimora, è poi possibile incontrare i lupi, la  lince, i  tassi e una gran quantità di volatili diurni e notturni, bisogna però avere gli occhi pronti e molta pazienza, perché la foresta si estende tra Polonia e Bielorussia per 1.900 chilometri quadrati.

A Białowieża  su ogni porta di casa c’è un cartello con scritto: “Wolne Pokoje” , pur non conoscendo il polacco intuisco che  il significato è: “stanze libere”, decidiamo comunque di non pernottare al primo posto che troviamo, così percorriamo avanti e indietro la strada principale per poi fermarci in un ufficio turistico, dove , ancor prima di entrare, una scatenata turista americana mi consegna la sua macchina fotografica e mi chiede di ritrarla accanto al sidecar. Anticipando i consigli dell’agenzia l’americana, mi indica il Żubrówka Hotel, che costruito in legno attorno a  un  grande tronco di quercia è il più bello della zona, ma anche il più caro, 273 Zloty  a stanza per notte, che al cambio fa 64 euro.

Chiavi  della stanza in mano, prenotiamo anche la guida  di lingua italiana per accompagnarci nel trekking della foresta.

Usciamo dall’ingresso principale dell’hotel  per prendere i bagagli  stipati nel sidecar, ma non riusciamo ad avvicinarci, perché tutta la famiglia americana ed anche  i loro amici  fotografano la star della serata che adornata con  pelli di pecora e bagagli da campeggio, ha un aspetto barbaro che ben si adatta a questa foresta.

Cambiati d’abito, jeans e polo, ci avviamo a cena, il portiere della sala apre la porta e il Maître indica il nostro tavolo e consiglia il menu: “Tartare di filetto di bisonte,  birra Zubr  del bisonte e per finire la  Zubrowka la wodka del filo d’erba del bisonte” , dall’altro tavolo la famiglia americana ci augura buon appetito.

La mattina inforchiamo le biciclette e con lo zaino sulle spalle ci avviamo verso la Bielorussia attraversando sentieri che s’inoltrano nel fitto della foresta, poi le sbarre ci fermano e qui finisce la Polonia; un filo spinato delimita il confine e per varcarlo è necessario  il visto, passare è vietato anche ai bisonti.

Seguiamo il sentiero tra alte querce, abeti rossi e betulle, quando una lapide posta in una radura attrae la nostra attenzione. Scolpiti nella pietra grezza ci sono settanta nomi di uomini appartenenti alla resistenza polacca, era il 1941 quando Herman Goring, mentre organizzava esecuzioni di massa, progettava di costruire la più grande riserva di caccia del mondo.

Rientriamo in albergo nel primo pomeriggio, mancano ancora un paio d’ore prima di inoltrarci nel fitto della foresta  in compagnia della guida, così m’immergo nei bagni caldi della zona benessere; sudo nella sauna e mi raggelo sotto la doccia terapeutica, perché nulla deve restare inutilizzato.

Alle diciassette precise ci sediamo nella hall dell’hotel ad attendere la nostra guida quando dai divanetti si alza una fragile ragazza dai lunghi capelli biondi vestita di nero, che si avvicina e chiede in perfetto italiano: “siete voi i turisti italiani ?, mi aspettavo un rude boscaiolo polacco capace di lottare con i bisonti, ma poi nel fitto della foresta mi rendo conto che Agata, cos’ si chiama la nostra guida, è un instancabile camminatrice e una profonda conoscitrice della foresta. Abbandoniamo il sentiero principale alla ricerca dei bisonti, che però non si fanno trovare, Agata spiega che sarà difficile vederli poiché d’estate s’inoltrano nella foresta, mentre d’inverno è possibile avvistarli perché s’avvicinano al paese sapendo di trovare il fieno nelle mangiatoie poste lungo il percorso del parco.

Guardo i miei  piedi che appoggiano su un manto di muschio e erba, poi alzo gli occhi  e vedo La Grande Mamamuszi che nasconde il cielo, è una quercia alta trentaquattro metri con un tronco di sette metri di circonferenza, poi come il re Ladislao II di Polonia prima della battaglia di Grunwald siedo sotto la quercia di Jagiello.

Il sentiero principale è ben curato, mentre il resto della foresta è rimasto nel  suo naturale

caos fatto di alberi giganteschi e vecchi tronchi abbattuti  dallo scorrere del tempo. Agata racconta di  quando ha visto crollare questi giganti testimoni del tempo e di come avrebbe voluto sostenerli e curarli, ma poi  ha capito  scoprendo il crescere di  nuova vita fatta di  micro organismi colorati e colonie d’insetti xilofagi che scavano il  nido nel tronco putrescente, poi quei piccoli fori fatti dal sottile becco del picchio rosso.

 Il nostro vagare è accompagnato da continue incursione di grossi scoiattoli rossi, curiosi di ciò che andiamo cercando tra gli alberi sradicati e tra i tronchi spezzati.

Il bosco si è fatto scuro e si sentono dei frusci di animali che invisibili ci osservano. Siamo gli ultimi turisti in visita, perché con l’arrivo della notte  bisogna lasciare la foresta, ma noi restiamo ancora un po’ ad ascoltare e scrutare nel buio, poi un improvviso squittire seguito da un vortice di foglie e nell’oscurità appaino tre piccoli musi bianchi e neri; è una famiglia di tassi, che saltano e giocano sorvegliati dalla madre. Restiamo immobili ad osservare quando quei musi bianchi e neri si alzano dritti sulle zampe per meglio annusare l’aria e poi si rintanano,  allora riprendiamo il nostro cammino, ma bastano pochi metri ed eccoli di nuovo a percorrere il sentiero senza timore.

Dei bisonti abbiamo visti solo i segni delle corna sui tronchi, si nascondono nel fitto della foresta per vivere il rito dell’amore, aspettando l’inverno per mostrarsi ad occhi umani. 

Qui si cena presto e  il tempo è passato veloce, sono le nove della sera quando arriviamo in albergo, siamo affamati ed anche un po’ preoccupati che la cucina sia chiusa, ma come di consueto la porta della sala da pranzo si apre e il Maître c’invita al tavolo.

La mattina arriva il primo starnuto e poi, con i bagagli in mano, arriva anche il secondo; dovevo aspettarmelo, Hotel cinque stelle, letti comodi e area benessere, il sidecarista non può permettersi certe mollezze, il suo viaggiare deve essere duro altrimenti paga la trasgressione con un raffreddore.

Danzica

Continuiamo il nostro viaggiare  percorrendo strade che attraversano la foresta fino al mar Baltico, pini rossi, betulle e querce, forse i bisonti sono qui e ci guardano passare mentre sfioriamo il confine con la Lituania. Freno con decisone di fronte al cartello che indica duecento chilometri  per Vilnius, potremmo fare una deviazione, ma non c’è tempo e Danzica dista trecentocinquanta chilometri, forse me ne pentirò, ma forse un giorno potrò viaggiare dimenticando giorno e ora.

Siamo quasi sul mar Baltico quando un’altra indicazione stradale distoglie per un attimo la nostra attenzione verso la meta; settanta chilometri per il confine russo e solamente cento chilometri per Kaliningrad. Una piccola exclave russa tra Polonia e Lituania, dove nel 1945 transitò il treno che, vagando per il nord est Europa, cercava la strada per portare a casa mio padre. Per varcare la frontiera è necessario un complicato visto del consolato russo e la prenotazione già confermata per un albergo, per cui nessuna deviazione è concessa, così arriveremo a Danzica verso sera.

Attraversando il  ponte sulla Motława Danzica mostra la suo stile architettonico  gotico-fiammingo. Questa città è il luogo simbolo dello scoppio della seconda guerra mondiale ed anche il luogo di nascita del movimento Solidarność, che pose fine al regime comunista polacco.

Fermo il sidecar in centro città e per trovare un albergo chiedo informazioni a un taxista, che subito mi fa strada. L’hotel è un grande e moderno fabbricato fatto di cemento, acciaio e vetro, molto lontano dallo stile gotico-fiammingo, ma anche molto comodo e a buon prezzo.

Le luci di Danzica sono tutte accese quando percorriamo a piedi la Ulica Dluga (Strada Lunga), colori, suoni e un vivace viavai di gente accende la  voglia di vivere emozioni. Guardo la città come  un palcoscenico dove i  giocolieri  fanno volteggiare palle di fuoco e i danzatori  roteano sulle schiene a tempo di rap ed in ogni locanda si beve birra ascoltando musica. Il tempo dovrebbe fermarsi adesso tra i visi di questi ragazzi felici, mentre luci e sorrisi cancellano le fatiche e le paure, ora il passato è solo un ricordo da dimenticare.

E’ mattina, ma prima di lasciare Danzica voglio ancora attraversare il centro città guidando il sidecar lungo la strada che costeggia il canale dove la  Motława e la Vistola confluiscono per sfociare nel mar Baltico,  poi ci spingeremo ancora più a nord per raggiungere le grandi spiagge di Leba.

La nuova autostrada che esce da Danzica ci porta verso Gdynia, ma il nostro navigatore s’è perso e avvisa di tornare indietro perché stiamo viaggiando nel nulla. Gli svincoli stradali ci fanno girare in cerchio e perdere il senso dell’orientamento, non trovo più la direzione verso il nord e i cartelli stradali indicano città  che non conosco, poi un cartello indica Varsavia, allora fermo il sidecar e mi guardo attorno cercando di orientare la carta geografica, ma trovare la giusta strada in questo intrigo di rotonde e svincoli, che  portano dove non voglio andare, diventa una scelta difficile.

Mentre sto decidendo di seguire una direzione qualsiasi per uscire da questo labirinto, si ferma un auto:

 “abbiamo visto una Ural e temevamo che foste in panne , è capitato anche a noi”.

Rispondo sorridendo:

“La nostra Ural non si ferma mai, siamo noi che ci siamo persi tra gli svincoli e vorremmo raggiungere Leba”. Allora girano e rigirano la carta geografica  discutendo, lei dice di qua e lui fa segno di la, poi entrambe decidono per la stessa direzione; la direzione  per Varsavia è quella giusta, dopo bisogna girare a sinistra finché troviamo l’indicazione per Gdynia. Ringraziamenti e saluti, poi partendo lei si sporge dal finestrino dell’auto  e saluta con la mano.

A Gdyna percorriamo la tangenziale che definisco “ammazza motori” ogni cinquecento metri c’è un semaforo, il traffico è tremendo ed è necessario accelerare e frenare con forza, al ventesimo stop i freni non reggono più e il motore è rovente, non ne posso più, allora mi fermo e poi cerco una strada alternativa. L’asfalto non è dei migliori, le buche non si contano, la vegetazione invade la carreggiata e in due non si passa, ma ci siamo solo noi, finalmente possiamo riprendere a viaggiare lentamente nelle campagne della Polonia.

Łeba

Nei pressi di leba incrociamo diversi gruppi di biker in sella alle Harley Davidson e qui non lontani dai confini della Russia la cosa mi stupisce un po’, ma poi il mistero si svela quando entrando nell’ufficio turistico vedo un cartellone che pubblicizza un moto raduno, il Bike Week del mar Baltico.

E’ il più lontano motoraduno a cui abbiamo partecipato, duemila e duecento chilometri in sella alla Ural, è una vera biker fest, qui come negli States, migliaia di moto, musica rock, miss maglietta bagnata, fuochi d’artificio  e le bancarelle che vendono gli immancabili gadget con i teschi, l’unica differenza è che qui i partecipanti sono Polacchi e Russi e noi gli unici Italiani. Per non sentirmi fuori posto infilo la bandana e poi ci sediamo al tavolo con in mano una birra da litro e un piatto di merluzzo alla piastra, accanto a noi si siedono altri motociclisti e tra un “wznieść” (brindisi) e l’altro ci chiedono da dove veniamo, a loro l’Italia sembra lontanissima e non credono che siamo arrivati con la nostra moto, poi quando gli spiego che stiamo viaggiando a bordo di una Ural, quasi si offendono credendo ad uno scherzo, allora scommetto una birra e mentre mi alzo,  una banda di biker dall’aspetto poco raccomandabile si accoda. Davanti all’oggetto del contendere il percussionista russo, che sembra essere il capo banda, mi appoggia il braccio sulla spalla e dice: “You are mine hero”  (sei il mio eroe), poi parte una pioggia di fotografie alla targa del sidecar. Le birre non si contano più, il  batterista russo chiama Rossana: “Amore Italia” L’abbraccia ed estrae dalla tasca interna del giubbotto una bacchetta della batteria, la firma e gliela dona. Di fronte a quel atto tutta la banda tace e il biker seduto accanto a me sussurra: “E’ un grande gesto,  con quella bacchetta ha fatto il suo miglior concerto” .

Il sole sta calando mentre l’ambiente si scalda sulle lugubri note di  Brotherhood of Man dei Motorhead rivisitate da un gruppo metal, la serata promette divertimento fino all’esaurimento delle forze, ma noi dobbiamo conservare le  energie per la lunga strada che ancora ci attende. Lo stile american biker ha invaso leba e proprio accanto alla nostra pensione una ragazza seduta su la sua Harley Davidson canta Bob Dylan e Bruce Springsteen, fin quando il frastuono della grande sfilata del motoraduno sommerge la musica e come un fiume in piena inonda il paese di chopper e trike. Nella parata c’è anche una novella sposa a cavallo della sua moto, che passando regala caramelle e bottiglie di vodka. Mentre mi sto godendo lo spettacolo dalla terrazza della nostra camera vedo sfilare un vecchio sidecar militare Ural, chiamo Rossana e quando  arriva l’Ural è già in panne, immobile a tu per tu con la nostra più giovane discendente, allora un brivido mi scende lungo la schiena e mentre l’anziana Ural si allontana spinta da tre volenterosi ammonisco: “Non guardare, non pensarci neppure!”.  

La mattina del giorno dopo facciamo l’ultimo giro nell’accampamento del moto raduno e i segni della nottata da leoni sono evidenti; tende distrutte, sacchi a pelo misti a birra ed altra roba pe preferisco non approfondire. I biker mattinieri stanno partendo e le bancarelle sono ancora aperte dalla notte, così ne approfitto per comprare la maglietta e le patch del “Bike Week” e mi faccio fare una cintura in pelle su misura con la fibbia in ottone, poi ci dirigiamo verso il mare.

Percorriamo uno stretto sentiero che poi sparisce nella sabbia, da qui bisogna procedere a piedi lungo le dune per raggiungere il mare.

Il mar Baltico non invita a lunghe nuotate, ma è facile fantasticare di lunghe rotte verso nord, di albe boreali e d’incontri con balene, per poi camminare lungo la spiaggia sentendosi liberi e soli di fronte a spazzi dove lo sguardo si perde.

Ripercorriamo il sentiero che ci porta sulla strada principale ripassando davanti all’entrata del moto raduno, l’amico russo ci vede, alza le braccia e gridando esibisce tutte le sue conoscenze della lingua italiana: “Ciao, amore,  Italia, spaghetti, mandolino” , allontanandomi anch’io grido tutte le mie conoscenze di russo: “da svidànija, vodka, Na zdorovie, balalayka”, lui ride e saluta mentre noi proseguiamo il nostro viaggio verso Toruń la città di Copernico.

Ancora campagne e boschi di pini rossi ci accompagnano per duecentocinquanta chilometri, solo l’attraversamento di Kościerzyna nella Pomerania ci costringe ad una sosta per raffreddare freni e motore nuovamente a causa di una sequela di semafori non sincronizzati, poi ancora fattorie, mucche e cavalli che ruminando osservano il nostro passare.

Attraversando un cittadina affianchiamo a un torpedone Russo, che come noi si ferma al semaforo, i passeggeri sono dei robusti ragazzi che fanno parte di una squadra sportiva, uno di loro si sporge dal finestrino ed indicando con il dito chiama gli altri ad ammirare il nostro sidecar, la corriera s’inclina sul lato sinistro e da questa si leva il grido: “Ural i luchshe”  che significa: “Ural è la migliore” , salutiamo suonando il calcson e partiamo quasi impennando a dimostrazione che il ferro russo non ha rivali.

 

Toruń

Una piccola città medievale sulle rive del fiume Vistola, cinta dalle alte mura dei cavalieri teutonici, che la fondarono, oggi divenuta patrimonio dell’UNESCO.

Arriviamo nel primo pomeriggio e cercando alloggio ci imbattiamo in una copia di giovani Polacchi molto interessata al nostro sidecar, dopo diverse spiegazione capisco che il tipo se ne intende ed infatti mi mostra alcuni suoi restauri di vecchie Ural spiegandomi: “Questa è andata in Francia, quest’altra in Germania, ma in Italia nessuna”, poi si decidono a chiedere cosa cercavamo, estrae un nuovissimo cellulare borbottando: “Hotel, Hotel…” e mi dice di seguirlo, mentre Rossana resta di guardia al sidecar.

La pensione è in centro ed è arredata in modo austero con mobili antichi e scuri, la finestra della camera da sulla via principale e accanto al letto c’è un cesto pieno di caramelle mou polacche, squisite, c’è anche il garage e il prezzo di quarantacinque euro tutto compreso rende perfetto il nostro soggiorno.

Passeggiamo attendendo l’ora della cena, attraversiamo la piazza soffermandoci a riposare difronte alla statua di in bronzo di Copernico dove è scritto: “Niccolò Copernico da Torun mise in moto la terra ed arrestò il sole". Mentre leggo la famosa scritta, un gruppo di ragazzi si esibisce in evoluzione sugli skateboard, però uno di questi atleti non è proprio un ragazzino, avrà passato la trentina, ed è un vero fallimento, insiste ma non fa altro che capitombolare, scusandosi con i passanti, che immancabilmente rischia di investire. 

Finalmente l’ora di cena è arrivata, ci accomodiamo in una terrazza all’aperto con vista sulla piazza di quello che sembra essere il migliore ristorante della città. Poco dopo arriva un’allegra compagnia di Americani accompagnati da una guida, subito il cameriere porta il vino, e il suo arrivo si trasforma in un coro di: “Good, good wine” , ma lo spettacolo inizia con l’arrivo delle portate, c’è di tutto, carne, minestre ed anche la pastasciutta, poi verdura e frutta; mangiano felici mescolando tutto e bevendo Coca Cola per digerire, che, pur non adatta, ha coscienziosamente sostituito il vino ed  infine, tra gli applausi dei commensali, arriva il dolce servito flambé.

Continuando la nostra passeggiata raggiungiamo l’albergo, ma prima ci fermiamo in un locale messicano per una tequila “bum bum” e poi di filato a dormire.

Prima di infilarmi sotto le coperte è necessaria l’aspirina e un’abbondate inalazione per contrastare il raffreddore, sperando di svegliarmi senza questa fastidiosa sensazione subacquea che intorpidisce i sensi.

Szczecin

Questa mattina la nostra meta è Berlino, ma dopo trecento e venti chilometri la stanchezza si fa sentire e decidiamo di fermarci prima a Szczecin, cosi approfitto per fare un po’ di manutenzione al sidecar.

Troviamo subito dove pernottare, poi andiamo a fare due passi per la città. Lungo la strada dei palazzi grigi intristiscono la nostra passeggiata, incontriamo delle donne arabe coperte da capo a piedi dal Jilbab, poi un gruppo di uomini con le face scure, che sembrano ritornare da un duro lavoro.

Avvicinandoci al centro notiamo che ci sono molti casinò, davanti ai quali sono parcheggiate solo auto tedesche e c’è pure un vivace movimento di ragazze, che esibiscono minigonne e tacchi alti. Bastano quattordici chilometri per arrivare in Germania e visto il minor costo della vita è facile immaginare come convenga vivere qui e  lavorare in suolo tedesco.

La piazza del centro non è molto frequentata però  è ben tenuta e rallegrata da due case di stile gotico -fiammingo, ma basta girare l’anglo per trovare in un vicolo dissestato e una rosticceria frequentata da soli uomini, che vende Kebab

Abbiamo visto abbastanza e decidiamo di rientrare per la cena al nostro albergo, arrivati  ordiniamo birra e  zuppa tipica del posto, una minestra scura fatta con il pane raffermo e poca carne, che dopo un paio di cucchiai  non  va più giù,  per fortuna la birra è buona e lava lo stomaco dalla vecchia e indigeribile sbobba.

La mattina abbandoniamo la Polonia per entrare in Germania, Berlino dista poco più di cento chilometri. Appena varcato il confine ci accoglie l’autostrada, viaggiando a novanta chilometro orari mi accorgo  di alcune anomale vibrazioni; è la ruota anteriore che gira irregolarmente ed anche le due posteriori traballano, ormai i pneumatici sono consumati e ovalizzati, mentre i raggi sono tutti da controllare, però non è una manutenzione da poter fare durante il viaggio, per cui non resta che continuare fidandosi della robustezza dei materiali russi e poi c’è sempre la ruota di scorta. Siamo in viaggio da tredici giorni e il primo incidente, fortunatamente senza feriti,  lo incontriamo su questa comoda e veloce autostrada, un furgone e un auto sono finiti uno contro l’altro invadendo l’autostrada di rottami e di oggetti appartenenti al carico, i conducenti non litigano,  anzi liberano il passaggio, mentre le auto  procedendo lentamente senza interruzioni alternando una della fila di sinistra con una della fila di destra. Mentre procediamo ordinatamente, mi torna in mente che la scorsa estate quando viaggiavo nel caotico traffico dell’Albania, dove le regole stradali non avevano certezza,  ogni incrocio si trasformava in un indistricabile ingorgo, dove ognuno cercava di infilarsi per poi restare bloccato sfogandosi a suon di clacson. 

Berlino

La città ci trasporta lungo  ampi viali attraverso la Potsdamer Platz fino a  raggiungere il cuore della Berlino est. la  Alexander Platz. Mentre Il Fernsehturm svetta sulla piazza, intorno alla "fontana dell'amicizia fra i popoli" (Brunnen der Völkerfreundschaft) si raduna un mondo di gente diversa;  un uomo con una lunga tunica di colore arancio sta in piedi su una sedia invitando un gruppo di devoti a meditare; un oratore dalla lunga barba grida parole che non capisco mentre una piccola folla applaude.

Una moltitudine di persone diverse cammina a passo veloce, altri scivolano sui pattini,  mentre i senza tetto restano immobili, a testa bassa, aspettando che qualcosa cambi.

Ad occhi chiusi ripercorro i tempi quando prima della guerra questa era la piazza del mercato dei buoi e uomini d’affari con la bombetta in testa affrettavano il passo sulla strada tra tram e carri trainati da cavalli;   quei giorni tormentati dai bombardamenti che non passavano mai e le corse nei rifugi antiaerei attraversando  ciò che restava  dell’Alexander Platz;

gli anni cinquanta e sessanta quando il regime comunista ha ricostruito gli antichi fasti della piazza  nel moderno stile staliniano e poi la riunificazione della Germania, che ha decretato la fine del socialismo reale abbattendo il muro, che teneva lontano il popolo dell’est dal news business dell’ovest.

Alexander Platz aufwiederseen - c’era la neve – faccio quattro passi a piedi fino alla frontiera – vengo con te”,  

mentre ci allontaniamo in direzione del muro, le parole della canzone di Battiato si ripetono nella mente, ma, forse è il vento sulla faccia, o forse è l’ immaginazione, che ripercorrendo gli eventi m’impedisce di cantare.

Seguiamo la Friedrichstraße, fin quando il "Checkpoint Charlie" ci ferma.   Fino al 16 novembre 1989 era il più importante posto di blocco simbolo della guerra fredda, dove, nel ottobre del 1961, i carri armati   statunitensi e quelli sovietici si affrontarono rischiando di provocare un nuovo conflitto mondiale. Nell'agosto del 1962 il mondo intero apprese il drammatico significato della divisone tra Berlino est e ovest, quando Peter Fechter, un muratore di 18 anni, fu colpito dai proiettili e  lasciato morire dissanguato a terra, mentre tentava di fuggire.

 Noi possiamo varcare il confine e fermarci a fotografare quella che oggi è un’attrazione turistica, ma anche un luogo per ricordare gli assurdi risvolti di una guerra tragica, che ha distrutto l’Europa per poi dividerla tra USA e URSS.

Proseguiamo nella Berlino est lungo quello che fu il muro; dal lato est non ci si poteva avvicinare senza il rischio di essere fucilati  per cui a nessuno veniva in mente di dipingere  murales, c’era solo una desolata distesa di cemento armato. Il lato ovest era invece un’immensa lavagna scarabocchiata da una irriverente e provocatoria libertà d’espressione, sulla quale anche artisti contemporanei come Keith Haring avevano lasciato la loro firma , poi con la caduta del muro gli “scalpellatori” s’impossessarono di straordinari souvenir. Mentre la parte ovest del muro veniva saccheggiata, una parte del muro ad est venne utilizzata per rievocare i murales, così nel 2009 a vent’anni dalla caduta vennero ridipinti i graffiti più celebri, come il bacio mortale tra Honecker e Breznev e la Trabant che sfonda il muro, cosi, oggi,  la Est Side Gallery , pur essendo un falso storico, è una esposizione  a memoria di Berlino est e ovest.

E’ ormai sera quando ci fermiamo sotto la Porta di Brandeburgo, il più antico monumento, che divideva Berlino est da Berlino ovest, mentre cerchiamo di decidere dove passare la notte si ferma un furgone blu, e un signore piuttosto espansivo ci saluta con un evidente accento romano: “Ciao Italiani. Sono italiano anch’io, vivo qua da quando è caduto il muro, vi serve aiuto ?” gli spieghiamo che stavamo cercando un hotel, ma che sono tutti troppo cari per noi e che quindi pensavamo di andare a cercare una pensione lontano dalla città, “No, che fate, Berlino è la città più importante d’Europa, potete andare dove volete, ci sono ostelli a buon prezzo, però dovete lasciare il sidecar in strada e la mattina non lo travate più, attenti a non passare per il quartiere dei naziskin perché quelli quando vedono uno scuro di carnagione non sai che gli fanno” , poi guarda noi e riguarda il sidecar e: “No, no, voi ci potete andare”  in quel momento arriva l’auto della polizia e lo fa sloggiare, perché ostruiva il traffico. La decisone è presa, abbandoniamo Berlino, e poi è  anche inutile fermarsi una notte per ripartire la mattina, quando non basterebbe una settimana per visitarla.

Prima che faccia buio ci mettiamo alla ricerca di una pensione dove pernottare, fermi a un distributore di benzina chiediamo quale sia il posto più vicino per fermarci a dormire e un automobilista ci spiega con precisione dove andare. Pochi chilometri e incontriamo il primo paese, poi andando sempre dritti l’albergo con cucina italiana che il conducente tedesco ci aveva indicato. Entrando mi avvolge un stantio odore di fritto e di italiano qui non c’è niente, il personale e tutto egiziano, non parla italiano e neppure inglese, sono le sette di sera e la cucina è già chiusa. Al banco c’è un avventore che con una birra in mano si dondola avanti e indietro, mi parla in tedesco e sembra soddisfatto di quanto ha detto poi e mi mette una mano sulla spalla dicendo: “Freund” e  riprende a barcollare. Finalmente arriva qualcuno che parla un po’ dì italiano, è il cuoco ed è egiziano pure lui, mi dice di aver vissuto in Italia da ragazzo, poi mi da la brutta notizia: “le stanze sono tutte occupate, l’aeroporto è vicino e  in zona è difficile trovare stanze libere”, ma non si da per vinto e mi fa cenno di seguirlo. Attraversiamo la strada e di fronte a un vecchio portone in legno la mia guida suona tutti i campanelli, ma nessuno risponde, nel mentre passa un signore in bicicletta, che compresa la nostra necessità dice: ”Ahi, mia zia dopo le sei non risponde”, allora prende il telefono e chiama, pochi squilli e la zia risponde, ma  dice che non c’è posto e di non disturbare perché i suoi clienti stanno già dormendo, così la nostra ricerca finisce e il cuoco  guida ci consiglia di proseguire fino al prossimo paese.

Lungo la strada non c’è anima viva, ho l’impressione di essere nel cuore della notte, ma non sono ancora le otto di sera e tutto tace. Il paese che incontriamo è più grande del precedente ma quanto a vita notturna non fa differenza.  Individuata una pensione aperta e illuminata entro con molta discrezione, la reception è vuota e sul bancone c’è il campanello per la chiamata, non so che fare, dovrei scampanellare, ma temo che arrivi un tedesco in pigiama a sgridarmi: “Fate silenzio !” che urlato in tedesco fa molta paura. “Ruhe schaffen !”,  comunque ci provo e mentre mi preparo a dare una risposta all’italiana, arriva un’arzilla vecchietta, che con passo deciso fa svolazzare un lungo vestito azzurro e blu e con poche parole ci consegna le chiavi di una comoda e curata stanza, poi ci dice che se vogliamo cenare dobbiamo sbrigarci, perché dovremmo trovare ancora aperto il ristorante italiano. La Bella Roma è il nome del ristorante, che come il precedente di italiano non ha nulla, è gestito da Albanesi, Romeni e un Tunisino il menù è italiano e la specialità più richiesta è: “Spaghetti bolognese” e boccale di birra da litro. Attendendo le portate chiacchieriamo  con il cameriere rumeno , non abbiamo ancora finto di mangiare  che il locale chiude i battenti, i camerieri se ne vanno e resta solo il titolare aspettando d’incassare, in effetti  si è fatto tardi, sono quasi le nove di sera ed è ora di rincasare.

Alle sei di mattina abbiamo già caricato i bagagli e siamo pronti a partire per cercare tracce del campo di lavoro dove mio padre ha passato quasi due anni di prigionia.

In meno di tre ore percorriamo centosettanta chilometri e prima delle dieci del mattino siamo davanti al cartello della cittadina di Taucha.

Taucha

Mentre mi perdo in un intrico di sensi unici e lavori per raggiungere il  centro, penso che forse in qualche casa  di questa piccola città della Sassonia è appeso un ritratto che mio padre fece durante la prigionia in cambio di una patata o di una coperta in più.

Le mie informazioni riguardavano l’esistenza di un museo dedicato alla seconda guerra mondiale dove sono esposte delle immagini del campo di lavoro nazista gestito dalla Luftwaffe. Incomincio la ricerca  entrando  in un negozio di vestiti per chiedere informazioni, ma i gestori sono cinesi e non sanno una parola di inglese e neppure d’italiano, poi entro in un panificio dove un anziano tedesco si rende subito disponibile, ma quando chiedo informazioni sul campo di lavoro alza le spalle e finge di non capire. Ritornato al sidecar mi  guardo attorno per cercare qualcuno che possa dare delle indicazioni, nel mentre  un gruppo di ragazzini si ferma a guardare la moto, così provo a porre le domande fatte in precedenza e  uno di loro mi dice di aver visitato con la scuola il museo che riguardava il periodo nazista.

Il museo c’è, ma è chiuso, un cartello indica degli orari poi precisa  che per le visite bisogna contattare anticipatamente la segreteria della scuola e poi prosegue con il menu di un ristorante greco. Vista la strana indicazione proviamo ad entrare  nell’ atrio d’ingresso dove un solerte cameriere ci invita ad entrare; ormai  siamo qui ed è ora di pranzo, per cui accettiamo l’invito. Vicino al nostro tavolo c’è  una copia di tedeschi dall’aspetto triste, che mangia in silenzio, all’altro tavolo un signore dall’aria seria che legge il giornale dimentico delle  specialità greche  che ha nel piatto. Passano pochi minuti e arriva il cameriere, lo guardo mentre consegna il menù e non mi sembra greco,  è magrebino e viene dal Marocco come tutto lo staff del ristorante. Rossana ordina dei souvlaki e io un moussaka e della birra Tedesca. Quando arrivano le portate restiamo stupiti nello scoprire che i souvlaki non sono gli spiedini di carne con verdure, ma bensì una specie di insalata dove  il cavolo cappuccio fa da padrone assieme a dei pezzetti di pollo, mentre il moussaka è un’informe  pietanza fatta di besciamella bollente come la lava e carne di maiale.  Guardo il signore con il giornale che  ancora non ha toccato cibo e, come lui, lascio raffreddare il mio strano pasto, poi apro la carta

geografica per fare il nuovo punto di rotta in direzione Praga. All’una e trenta il cameriere ci chiede di pagare perché il locale chiude, per fortuna  mi sono già scolato la birra,  mentre buona parte di ciò che il menù definisce moussaka resta fumante nel piatto.

Ormai siamo sulla strada del ritorno e abbandoniamo la  Germania e i suoi ristoranti dirigendo verso la Boemia a Praga, che da qui dista duecentocinquanta chilometri .

Uscendo dalla città mi fermo di fronte a un radura incolta percorsa dalla ferrovia e non è difficile immaginare che il campo di prigionia fosse qui, perché mio padre mi raccontava di quei setti chilometri fatti a piedi lungo la strada ferrata (Eisenbahn)   per raggiungere Lipsia nel giorno della liberazione. In questa distesa di prati cerco di sovrapporre il disegno del campo di concentramento che mio padre fece  segnando negli spazzi bianchi i colori da usare al suo ritorno  a casa.  

Nando Toso Lagher  https://www.nandotoso.it/

Abbandonando Taucha verso Lipsia seguo  la strada che costeggia la ferrovia e sono certo che è la stessa che mio padre percorse con l’anima nuova di un uomo libero, ma con la divisa troppo larga per i suoi quarantatre chili e troppo corta per la sua altezza.

Praga

Il  sidecar conosce la strada che conduce al centro di Praga ei con l’aiuto del  navigatore raggiungiamo il bed and breakfast che abbiamo prenotato tramite internet.  Messi al sicuro bagagli e moto prendiamo il tram e scendiamo difronte al ponte Carlo, che come sempre è colmo di turisti che fotografano e vanno avanti e indietro, poi ci dirigiamo verso la città vecchia, dove l’orologio astronomico sta battendo le diciotto e la folla applaude. Continuiamo la nostra passeggiata fino alla piazza San Venceslao il luogo in cui nel gennaio del 1969 si diede fuoco, come un monaco buddhista, Jan Palach  esasperato dalla repressione militare  dell’Unione Sovietica. Non voglio soffermarmi a descrivere Praga e la sua vita perché l’ho già fatto (Appunti di viaggio) e la prima impressione è la più entusiasmante. Camminiamo per strade periferiche lontani dalla calca, alla ricerca di un ristorante che ci è stato consigliato. I vicoli di Praga hanno qualcosa di misterioso, storie di fantasmi e golem d’argilla creati dai ”Maestri del nome” , ma anche oscure birrerie mal frequentate da brava gente, che ama bere troppo.

Dopo cena passeggiamo lungo la Moldava alla ricerca di un bar dove ci sia della buona musica, ancora una birra e una Becherovka,  ma siamo troppo stanchi per una nottataccia così prima di mezzanotte riprendiamo il tram per tornare al bed and breakfast.

Questa  mattina la colazione dovrà bastarci fino a sera perché  vogliamo percorre con calma le strade periferiche  che per  quattrocento chilometri  ci condurranno a Schladming in Austria.

 Il nostro viaggio della memoria passa per Mauthausen dove in cima ad una collina una  fortezza in pietra nascondeva un campo nazista, qui la morte  avveniva per denutrizione e stenti durante i  lavori forzati nelle cave di granito, oppure per mano del figlio undicenne  del  comandante Franz Ziereis,  che per compiacere il  padre sparava ai prigionieri dal portico della sua abitazione. 

 

Un nastro d’asfalto nero attraversa i pascoli con l’erba perfettamente curata, ogni balcone è colmo di gerani e petunie, tutto appare pulito e in ordine.  Pernottiamo in una pensione che sembra la casa delle bambole, siamo davvero stanchi e questo posto sembra fatto per dormire.

Schladming è a  duecento novanta chilometri da casa, non vogliamo rientrare in fretta, abbiamo ancora un giorno per goderci le Alpi Austriche, quindi decidiamo di dirigere verso Zeel  am See per poi salire al Grossglockner e fermarci a dormire a quasi quattromila metri d’altitudine nei pressi del ghiacciaio.

Facciamo pochi chilometri e troviamo la strada interrotta, come noi, altri motociclisti consultano la carta geografica e il navigatore per trovare una via alternativa, ma non c’è nessuna possibilità. La vacanza è finita, l’autostrada è l’unica percorribile e ci porterà fino  a Villach lungo un percorso completamente diverso da quello che avevamo progettato, da qui dovremmo risalire verso il Grossglockner e non ha senso perché ormai siamo vicini a casa.

Alle due del pomeriggio fermo il sidecar sotto il portico di casa e mentre scarico i bagagli penso, che settant’anni fa mio padre era ancora vivo e  varcava la porta della sua casa di Via Gorizia da reduce della seconda guerra mondiale; era davvero finita. Il mattino del 6 agosto 1945, i nostri nuovi alleati  avevano deciso di porre fine al conflitto con il  Giappone  sganciando la bomba atomica su Hiroshima e tre giorni dopo su Nagasaki.

La nuova repubblica italiana festeggiava i pattriotti della resistenza, il resto doveva essere dimenticato ed  anche i reduci dovevano dimenticare ed essere dimenticati.


“Ho finito di scaricare i bagagli dal sidecar, adesso mi spoglio e mi stendo sul letto, solo una mezzora, poi si vedrà.”


FINE


Andrea e Rossana