Andrea & Rossana
Un altro canale della televisione manda in onda il meglio del più moderno rock, ma la chitarra ripete gli stessi rif degli anni ’70 e la musica mi sembra più triste. Spengo la televisione e vado nel garage a dare un occhiata alla moto, mancano quindici giorni alla partenza, ho le gomme nuove ed ho già caricato nel bauletto le attrezzature da campeggio.
Voglio andare in Inghilterra, per attraversare a piedi scalzi Abby Road e cercare il barbiere di Penny Lane, poi proseguire verso Durness in Scozzia, dove tre pietre ricordano che John Lennon passava qui le sue vacanze.
Ci sono luoghi che ricorderò per tutta la vita benché alcuni siano cambiati
(John Lenon – in my life)
Sono i ricordi di un ragazzo, che oggi neppure riconoscerei ma, anche se tutto è cambiato, in Scozia c’è il miglior whisky e fosse solo per questo, ad agosto partirò.
13 agosto 2017
Benzina e olio sono a posto; la vecchia Honda è pronta per partire, Rossana conta: “Uno, due e tre”, poi, con un balzo, monta in sella.
Oggi attraverseremo l’Austria e poi la Germania, dobbiamo avvicinarci il più possibile a Calais in Francia in modo da imbarcarci domani e poi risalire l’Inghilterra verso la Scozia.
Percorre l’autostrada non è il modo migliore per godersi un viaggio in moto, ma nei lunghi trasferimenti è una necessità. La Varadero fila veloce sulla corsia di sorpasso, fin quando tutti si fermano e l’autostrada tedesca si trasforma in un immenso parcheggio. Sguscio tra le file d’auto appaiate, poi rifilo un camion fermo da ore e presto attenzione che uno sportello non si apra all’improvviso.
Il sole batte sul casco ed anche la giacca da moto è rovente, le ventole dell’impianto di raffreddamento gettano l’aria calda sulle mie gambe. In questo groviglio di auto, che avanzano di metro in metro, non posso fermarmi devo continuare questo faticoso slalom fino a alla fine della coda.
Dopo venti chilometri di manovre e lento andare scopro che la causa del rallentamento sono i lavori in corso, gli stessi di una decina di anni fa.
Ad uno ad uno i vari mezzi di trasporto s’infilano nella stretta corsia, altri venti chilometri percorsi lentamente, poi l’autostrada si apre con tre corsie e le auto accelerano senza limiti sfrecciando ad oltre duecento all’ora, poi un improvviso lampeggiare di luci rosse, uno stridio di freni e siamo nuovamente tutti in coda.
Sono le sette di sera e viaggiando in questo modo non siamo riusciti a varcare il confine Francese.
Abbiamo da poco superato Karlsruhe e dobbiamo trovare un posto dove fermarci per la notte, perché da queste parti dopo le otto di sera tutto si ferma. Ci inoltriamo nel primo paese che troviamo dove l’unico Hotel è l’Europa e la sua reception non è un luogo accogliente dove chiacchierare con il personale, bensì una macchina elettronica a cui devi affidare il documento d’identità e la carta di credito. Schiaccio il pulsante con scritto chek in e una voce femminile mi parla in tedesco, non capendo cosa dice cerco aiuto aprendo una porta che sembra accedere all’interno dell’Hotel ed invece mi trovo in un locale frequentato da arabi dove si fuma Il narghilè e si gioca d’azzardo, fortunatamente qualcuno conosce anche la lingua italiana e mi aiuta a seguire le indicazioni della reception automatizzata. Dopo un paio di tentativi andati male riusciamo ad arrivare alla richiesta della carta di credito, così la macchina in cambio di cento euro sputa la chiave numero cento quarantuno.
Tre rampe di strette scale con le valige in mano, mentre il sudore cola sulla fronte, poi giro la chiave e apro la porta, una luce fioca illumina la nostra piccola stanza fornita di un altrettanto piccolo bagno, spalanco la finestra, che s’affaccia sul triste cortile dove, vicino ai bidoni delle immondizie, è parcheggiata la nostra moto.
Alle otto di sera usciamo dall’Hotel alla ricerca di qualcosa da mangiare, lungo la strada non c’è nessuno e una sottile pioggia lucida l’asfalto, girato l’angolo intravvediamo le luci di un pub dove prendiamo posto ad un tavolo. Due boccali di birra con abbondante schiuma ci mettono di buon umore.
14 agosto 2017
Colazione rinviata al primo rifornimento di benzina, sono le otto del mattino e vorremmo raggiungere Calais verso le quattordici, dobbiamo percorrere poco più di settecento chilometri.
Appena superato il confine Francese ci fermiamo ad una stazione di servizio per un cappuccino con croissant e un pieno di benzina, poi un’altra sosta a Reims e alle quattordici e trenta entriamo nel grande porto di Calais dove al corridoio duecentosei ci attende il traghetto per Dover.
Con le cinghie ho ben assicurato la moto, ora possiamo salire sul ponte quattro, il più alto, per goderci un ora e mezza di attraversata della Manica.
L’ora passa veloce chiacchierando con una signora del Galles, che in perfetto Italiano ci informa sulle bellezze naturali del suo paese.
l’aria non è limpida, ma poi la foschia si dirada e come nel film del 1944, compaiono le bianche scogliere di Dover.
Il ponte mobile scende appoggiandosi sulla banchina e il traghetto beccheggia, i marinai serrano le gomene sulle bitte, ora la nave è immobile e noi in sella alla moto iniziamo la discesa in suolo Inglese.
Percorriamo il corridoio fino alla dogana, poi una breve sosta per mostrare i documenti e seguiamo le indicazioni per Londra. Un cartello avvisa: “Drive left”, guidare a sinistra è una novità che confonde, ho l’impressione di essere nel posto sbagliato, le rotonde m’ingannano, vado lento ma gli Inglesi attendono con pazienza le mie manovre.
Oggi abbiamo viaggiato abbastanza, facciamo ancora una trentina di chilometri, anzi poco più di diciannove miglia ora siamo in Inghilterra, e arriviamo a Canterbury una città medioevale, che richiama alla mente i racconti di Geoffrey Chauce, che nel 1972 hanno ispirato Pasolini per il film la Trilogia della vita.
Naturalmente piove, “English Weather” dice il portiere quando ci vede arrivare in moto. L'Hebury Hotel ha l'aspetto lussuoso di un antico edificio costruito con pietra grigia.
Ci fermiamo più per curiosità, che per pernottare, certi che il prezzo di una camera non sarà alla nostra portata, infatti una matrimoniale costa centosessanta euro a notte, oltretutto è rimasta libera solo la suite di cui preferisco non chiedere il prezzo.
Ripartiamo alla ricerca di un altro alloggio, ma è tutto occupato e la pioggia scende sempre più fitta, l’addetto alla reception dell’ Hotel Best Western prova a cercarci una stanza libera, ma in tutta Canterbury non c’è una camera libera, per cui la scelta è quella di cercare un campeggio e montare la tenda sotto la pioggia oppure pernottare nell’albergo più costoso della zona. Siccome il prezzo della suite non l’avevamo chiesto, più per curiosità che altro, decidiamo di ritornare all’Ebury, il portiere rivedendoci sfodera il più cortese dei sorrisi e, mentre la mia tuta antipioggia gronda acqua nella hall dell’albergo, mi propone la suite ad un prezzo inferiore a quello di una camera. Pagamento anticipato e chiavi alla mano, scarichiamo le borse dalla moto prendendo possesso della suite; un appartamento con salotto e cucina arredati con uno stile moderno e funzionale, il bagno ampio e con tutti i confort e la stanza da letto in stile inglese ottocentesco.
Dal nostro appartamento usciamo nel curatissimo giardino dell’hotel dove ci servono birra scura e fish and chips. Al calar del sole rientriamo nelle nostre stanze e quando provo a mettere in carica l’interfono dei caschi scopro che gli Inglesi sono diversi dal resto d’Europa anche per le prese di corrente, così domani dovremo procurarci nuove spine altrimenti tutte le nostre attrezzature si spegneranno lentamente.
15 agosto 2017
Piove, ma l’abbondante breakfast compreso nel prezzo, ci dà la forza per caricare la moto e, indossate le tute antipioggia, ci avviamo alla ricerca delle prese di corrente inglesi.
Puntiamo su Londra, che dista da qui sessantun miglia, ma dopo aver sbagliato strada più volte per raggiungere il centro e aver rischiato di imboccare una rotonda contro mano nel caotico traffico, decidiamo di visitarla al ritorno, quando avremo più esperienza del traffico Inglese.
Fuggiamo dalla circonvallazione dirigendoci verso Cambridge, la città dove si dice che il melo del Trinity College sia un discendente dell’albero sotto il quale Newton scoprì la teoria della gravità, inoltre è in questo college che si sono svolte le riprese del film: “Momenti di gloria”.
Passiamo davanti al pub "The Anchor", fondato nel 1864 e divenuto famoso per aver avuto come clienti abituali Roger Waters e Keith Barrett, i fondatori dei Pink Floyd, infine troviamo il super mercato dove acquistare le prese elettriche. A missione compiuta decidiamo di evitare le strade principali e di dirigerci, un po’ a caso, verso la costa est per risalirla in direzione della Scozia.
Seguiamo strade a corsie ridotte, tra boschi e prati verdissimi, poi attraversiamo cittadine che sembrano appena state pulite e riordinate come Thetford, scoprendo che ogni località ha il suo campo da golf di diciotto buche, con annessa club house, c’è anche il maneggio dove, con caschetto stivali e frustino, i cavallerizzi Inglesi saltano ostacoli di ogni tipo, non manca il campo da rugby e neppure quello per il football.
Raggiungiamo King's Lynn la città dove è nato Roger Taylor, il batterista dei Queen, poi oltrepassiamo Boston, non la metropoli americana, ma una città nella contea del Lincolnshire, che con le sue casette di mattoni rossi ricorda i racconti di Dikens. A trenta miglia da Boston c’è Grantham la cittadina che ha dato i natali alla Lady di ferro, la baronessa Margaret Thatcher.
Abbiamo percorso duecentocinquanta miglia e alle cinque di sera ci fermiamo a Skegness una località balneare sul mar del nord dove troviamo alloggio. All’ora di cena ci avviamo sul lungo mare alla ricerca di un locale per mangiare qualcosa, ma, invece dei caratteristici pub, troviamo giostre e zucchero filato, trenini e montagne russe; un paese dei balocchi dove le famiglie portano i bambini alle giostre, mentre gli adulti giocano al bingo.
“In questo locale si comprano souvenir e fish and chips a buon prezzo, e si può tentare la fortuna alle slot machines”, più o meno è questo il modo con cui il ristorante dove troviamo un tavolo libero invita la clientela; lasciamo perdere souvenir e gioco d’azzardo e al banco ordiniamo fish and chips e due pinte di birra, poi ci sediamo all’aperto ad osservare la vita di questa rumorosa cittadina di mare fin quando si fa buio e si accendono le luci come fosse un Natale Americano.
Nonostante l’aspetto festoso di Skegness, la contea del Lincolnshire è stata ribattezzata dal Daily Mail: "Lincolngrad” a causa della massiccia immigrazione dai paesi dell’est, che, in soli nove anni, ha quintuplicato la popolazione della contea, facendo schizzare alle stelle la disoccupazione e precipitare i Salari.
Ripercorriamo la strada verso il nostro B&B prestando più attenzione agli altri alloggi, molti mostrano il cartello: “No vacancies” che è come dire: “Siamo al completo”, altri pubblicizzano prezzi più bassi di quanto abbiamo pagato noi, ma hanno un aspetto piuttosto sporco e decrepito.
Appena entriamo nel nostro alloggio il proprietario ci chiede che cosa vorremmo avere per colazione domani mattina e tra le tante scelte decidiamo per il full breakfast, poi con una bottiglia di birra ci sediamo nel piccolo e curatissimo giardino a chiacchierare di moto e viaggi finche si fa ora d’andare a dormire.
Davanti alla scala che porta alla nostra stanza c’è una piccola biblioteca, prendo a caso un libro, tanto per provare a leggere qualcosa in lingua inglese prima di addormentarmi, la scrittrice è Sue Towsend e il racconto s’intitola: “The lost diaries of Adrian Mole”, sfoglio a caso poi mi soffermo su una frase che secondo la mia traduzione scrive così: “Dice che dopo la gita a Skegness sono morti due pensionati e che la colpa è di Bert Baxter perché è come li avesse assassinati lui, ma è più probabile che sia stato il vento gelido che tira sempre a Skegness a farli crepare”, poco dopo mi addormento sognando giostre e venti gelidi.
Continua
Andrea & Rossana
16 agosto 2017
La luce del sole attraversa le tende, sono le sei e trenta del mattino e Rossana è già in piedi: ” Oggi entreremo in Scozia, potremmo fermarci a Edimburgo” L’idea sembra buona, per cui, ancora prima di ritirami in bagno collego il cellulare al wi-fi e cerco un albergo. Con un colpo di fortuna trovo l’offerta di un hotel in centro ad un ottimo prezzo e quindi prenoto e pago in anticipo con la carta di credito.
Alle otto siamo pronti per il breakfast, apriamo la porta bianca con vetri all’inglese che ci separa dalla colazione luculliana. Cercando il nostro tavolo osservo una bimbetta bionda dall’aspetto angelico, che con una mano tiene una salsiccia rosicchiata e con l’altra attinge da una zuppiera dei fagioli all’uccelletto. Il nostro tavolo è imbandito con gusto raffinato, tovaglia ricamata e stoviglie di porcellana, non resta che servirsi al buffet con pane tostato, burro, marmellata e caffè in abbondanza. Avevo dimenticato che era in arrivo il full breakfast ed ecco un piatto ovale di grandi dimensioni, contenete uova strapazzate e pancetta fritta, salsicce, peperoni, pomodori bolliti, e il Black pudding simile al nostro sanguinaccio, poi gli immancabili fagioli e una tazza colma di porridge a base di latte ed avena arricchita con frutta. Alle nove stiamo ancora ingurgitando il full breakfast, poi, dopo aver preso un digestivo, salutiamo i proprietari come si fa con vecchi amici e ci avviamo verso Edimburgo. Abbiamo tutta la giornata per raggiungere la nostra meta, per cui scegliamo di viaggiare su strade secondarie, almeno fino dopo il parco naturale del North York Moors, quindi imbocchiamo la A1, che prosegue lungo la costa. Quando ci fermiamo per rifornirci di benzina mi viene in mente di telefonare all’hotel di Edimburgo per chiedere conferma della prenotazione, la risposta è immediata: “Si, la sua prenotazione per le date del uno e due settembre è stata registrata e pagata”, “Come per il due settembre!” rispondo: “Stiamo arrivando adesso, saremo li prima delle diciotto”, ma nulla da fare devo vedermela con l’agenzia che ha fatto la prenotazione. Anche se comincia a piovere resto seduto su una panchina per contattare il tour operator, che, considerato il disguido, riesce a dirottare la prenotazione ad un altro hotel nella citta di Bo’Ness a ventidue miglia da Edimburgo; è destino niente visita cittadina, ma almeno non ho buttato i soldi della prenotazione.
Scozia
Siamo in Scozia. La pioggia scende fitta, ma non ci faccio più caso, con il guanto asciugo la visiera del casco per vedere le indicazioni del Richmond Hotel ed invece ci ritroviamo al Douglas Park, dove una locomotiva attende che la ruggine abbia il sopravento sul suo vecchio metallo, ma non abbiamo sbagliato perché poco più avanti c’è il nostro hotel.
Se non fosse per l’ala nuova, sembrerebbe più ad un vecchio pub che ad un hotel. Alla reception una gentile signorina mi consegna le chiavi della stanza e una mappa per raggiungerla, i corridoi dell’albergo sono un labirinto arredato con legni scuri e tappeti rossi, che rendono l’ambiente ancora più cupo. Con le borse in mano e la tuta antipioggia che sgocciola cerco di orientarmi tra androni e passaggi alla ricerca della stanza numero quattrocento quattordici, ormai demoralizzato appoggio i bagagli a terra quando una premurosa signora Scozzese si offre come guida e mi accompagna fino alla stanza, poi mi fa notare che scendendo dalle altre scale e attraversando il pub posso raggiungere la moto senza dover attraversare tutto l’albergo.
Asciutti e cambiati, ci accomodiamo al ristorante con una birra scura McEwan’s Scotch Ale, accompagnata dal piatto nazionale Scozzese Haggis, fatto di frattaglie di cuore, polmone e fegato di pecora macinati con cipolla, poi grasso di rognone, farina d’avena, sale, spezie e brodo; il tutto trasferito nello stomaco della pecora e bollito per circa 3 ore. Detto così può far paura, ma spalmato sul pane con contorno di patate fritte è ottimo ed in fine un scotch Balvenie invecchiato quindici anni, da non confondersi con un Whisky qualsiasi, questo è un vero Scozzese doppio malto.
17 agosto 2017
Finalmente il sole, è la giornata ideale per scegliere una strada a caso e seguire la costa fino a Dundee.
Un cartello con l’indicazione per una piccola distilleria di whiskey ci incuriosisce, così imbocchiamo uno sterrato che conduce fino alla scogliera, dove una catasta di botti annuncia che abbiamo raggiunto la meta.
Da una corriera appena parcheggiata scende un gruppo di anziani che indossano un gonnellino a quadri arricchito con i fregi del clan, la cui abbondante stoffa è ripiegata sulla spalla sinistra; è il tipico kilt in tessuto tartan di lana delle Highlands, che ogni Scozzese è fiero di portare.
Mentre Rossana ed io consumiamo un cappuccino, Gli Scozzesi non perdono tempo e sorseggiano dal calice a tulipano dello scotch torbato.
Terminata la visita acquisto delle bottigliette di whisky da collezione, che porteremo in Italia assieme al loro profumo affumicato di frutta e torba, poi ripartiamo seguendo la costa Scozzese che si affaccia sul Mar del Nord.
Attraversando St Andrews facciamo sosta difronte alle rovine dell’omonima cattedrale di epoca medievale, di cui oggi restano solo ruderi di pietra scura dall’aspetto fiabesco che ricordano la torre incantata di Rapunzel.
Attraversiamo il centro di Dundee salutando la statua di Desparate Dan accompagnato dal suo fido cane Dawg, un corpulento fuorilegge nato sulle pagine della rivista The Dandy, poi parcheggiamo la moto, tra la cattedrale di St. Andrews e il pub Tickety Boo's , per fare il punto di rotta e scoprire che siamo a pochi chilometri dalla città natale di Sir James Matthew Barrie, allora mi torna in mente una frase del suo racconto: “Nel momento stesso in cui dubitate di poter volare, cessate anche di essere in grado di farlo.”, si, è proprio lui, il padre di penna dei bambini sperduti e per viaggiare in moto bisogna sentirsi un po’ Peter Pan ed è per questo che una deviazione fino a Kirriemuir non ci costerà fatica.
il nostro viaggio prosegue lungo l’Angus Coastal Route attraversando caratteristici villaggi di pescatori , una breve sosta davanti al castello Dunotar arroccato su un imponente scoglio nei pressi Stonehaven, poi proseguiamo fino ad Aberdeen.
Alle sei della sera decidiamo di fermarci a Cruden Bay , dove un cartello indica che svoltando a destra troveremo un bed & breakfast. Non c’è molta scelta oltre al B&B c’è solo un lussuoso albergo con il cartello del tutto esaurito, quindi svoltiamo a destra sperando di poter pernottare.
L’insegna: “By the Bay” indica che siamo nel posto giusto suono il campanello, ma senza risultato, così giro l’angolo della strada e busso alla piccola finestra di una cucina, dove un uomo ben panciuto sta preparandosi la cena, mi fa cenno di aspettarlo e in un attimo esce dal portone del giardino.
È il padrone del B&B ed ha già le chiavi della stanza in mano, ci precede affannato e claudicante fino alla porta d’ingresso, poi ci dice che possiamo parcheggiare la moto nel giardino e che per domani mattina alle otto ci cucinerà il tipico Full Scottish Breakfast.
Una doccia calda, poi mi distendo sul letto per riposare un po’. Poco dopo usciamo e passeggiamo fino al Kilmarnock Arms Hotel dove ceniamo.
Dopo cena Rossana decide di ritornare nella nostra stanza, mentre io armato di macchina fotografica m’incammino lungo la Main Street e poi proseguo sulla Harbour Street spiando involontariamente la vita serale degli abitanti del luogo attraverso le finestre che danno sulla via.
I figli stanno vicino alla madre coperti con un plaid, il padre fuma una sigaretta seduto sulla poltrona mentre i loro visi sono illuminati dai bagliori della televisione; nell’altra finestra una donna avvolta in una coperta mangia biscotti e marmellata guardando lo stesso programma televisivo che illumina ogni finestra della via.
Lungo la strada un ragazzo e una ragazza mi salutano allegri nell’momento in cui scatto una fotografia a delle rose notturne illuminate da un lampione.
La strada prosegue lungo la baia ed arriva al Slains Castel dove, nel 1897, dimorò l’irlandese Bram Stoker, che ispirato dal tetro aspetto del castello, scrisse la storia del Conte Dracula, allora punto l’obiettivo della macchina fotografica verso la baia, mentre Il mio sguardo va verso il mare per avvistare la spettrale nave che portò “Nos Feratu” dalla Transilvania fino a queste coste.
18 agosto 2017
Questa mattina vorremmo raggiungere Inverness, la prima città delle Higlands e poi proseguire lungo il lago di Loch Ness fino a Drumanadriochit e con un po’ di fortuna, o meglio con più fantasia, potremmo vedere Nessie, il mostro del lago.
Poco dopo la partenza la pioggia si fa più intensa e sulle strette strade, che si snodano tra la campagna e la costa, si formano pozze d’acqua, che la nostra moto attraversa alzando baffi d’acqua come farebbe una barca in planata.
Mi fermo davanti al cartello che indica il villaggio di Gardenstown e siccome piove a dirotto mi sembra un’ottima idea fare una sosta per un te all’inglese, così abbandoniamo la via principale e imbocchiamo un ripido e scivoloso viottolo, che con stretti tornanti sembra precipitare sui tetti delle case. Ad ogni tocco di freno, o di acceleratore la ruota posteriore slitta e Rossana protesta: “Adesso finiamo per terra, te l’avevo detto che non volevo venire di qua, ma fai sempre quello che vuoi tu…..,poi dobbiamo anche risalire”. Finalmente arriviamo al villaggio e qui sembra che il mare voglia raggiungere le case con la spuma delle onde. Proprio difronte a noi c’è un piccolo bar all’insegna di: “Teapot 1”, appendiamo le tute all’ingresso e ci accomodiamo nella saletta. Difronte al nostro tavolo quattro giovani signore chiacchierano sorseggiando il tè, quando arriva un’anziana dai capelli bianchi, bagnati e spettinati, con addosso una logora giacca a vento blu; appena questa si siede al tavolo il padrone del locale si precipita a servirla. La vecchia ordina da mangiare, ma poi cambia idea e nonostante i capricci la sua portata arriva prima del nostro tè.
Il gruppetto delle giovani signore non chiacchiera più, nella stanza si sente solo il rumore delle stoviglie dell’anziana donna, che mangia veloce, poi si alza e se ne va riverita dal profondo inchino del cameriere. Chissà chi era, quella trasandata vecchia, forse una signora meritevole di rispetto, o forse una strega?
Quando usciamo piove ancora e più di prima, Rossana, preoccupata per la salita, accende una sigaretta e l’acqua la spegne, così ripartiamo subito. I tornanti sono diventati un torrente, ma con la giusta dose di acceleratore la moto sale sicura, poi riprendiamo la strada principale verso Inverness.
Tra boschi e pascoli frequentati da mucche che riposano incuranti della pioggia, appare una chiesa gotica, solitaria, sotto un cielo scuro da togliere il fiato, è da qui che potrebbe cominciare una nuova spaventosa favola.
Nel primo pomeriggio entriamo nelle Highlands, poi, raggiunto Inverness, proseguiamo lungo il lago di Loch Ness con gli occhi ben aperti per scorgere Nessie. Il suo ultimo avvistamento risale a maggio di quest’anno, quando un turista ha visto muoversi le acque del lago in modo inconsueto e poi è apparso qualcosa che assomigliava al lungo collo di un plesiosauro.
Il primo racconto della mitica creatura è datato all’anno 533, quando il monaco Irlandese Adamnano di Iona descrisse nella: “Vita Sancti Columbae” il funerale di un pescatore ucciso dal mostro, mentre le prime fotografie risalgono al 1933; ma gli scettici dicono che si tratta di trucchi e che Nessie è solo una creatura della fantasia. Comunque sia, noi ci fermiamo a scrutare le acque scure di questo grande e profondo lago.
Trovato alloggio a Drumanadriochit, attraversiamo il paese a piedi fino al Loch Ness Center &Exibition, ormai è già chiuso, in fin dei conti non è una gran perdita, perché su Nessie si è scritto e raccontato ogni fantastico particolare, ora non resta che incontrarlo di persona.
Tra le varie storie bizzarre lette sui quotidiani c’è quella del Daily Mail dove si scrive di un complotto Inglese per rapire il mostro ed esporlo a Londra, anche da questo articolo traspare la poca fiducia degli Scozzesi nei confronti del governo inglese.
Al ritorno entriamo nell’unico ristorante del posto, ma è tutto prenotato, per cui ceniamo in un baracchino sulla strada che vende fish and chip e birra, ma anche qui bisogna attendere, però per non farci aspettare in piedi difronte alla cassa, ci forniscono di un cicalino con una luce rossa lampeggiante, che ci avviserà appena la nostra ordinazione sarà pronta ed infatti, mentre curiosavamo in un negozio di souvenir e cartoline, l’aggeggio comincia a suonare e non c’è modo di silenziarlo se non quello di correre a ritirare la nostra cena, ma non siamo gli unici, altri turisti s’allarmano e s’affrettano sentendo quei suoni acuti: “Bip, bip, bip…. È il nostro? No la luce del nostro ancora lampeggia, dev’essere quello di quei signori che stanno scrivendo le cartoline”.
Raggiunto il piazzale davanti al castello fatichiamo a trovare un parcheggio per la moto, poi vediamo una lunga coda davanti alla biglietteria e così decidiamo di goderci il panorama da lontano e il posto migliore è una piazzola da dove si può scorgere l’antica rocca.
Ottocento anni di storia sono racchiusi in quelle pietre, che forse hanno visto il mostro del lago obbedire all’ordine di St. Columba e certamente hanno assistito a violenti battaglie, oggi le sue rovine giacciono tranquille difronte alle scure acque di Loch Ness e accendono la fantasia dei turisti, che toccandole rivivono gli antichi e cruenti fasti.
Superato loch Ness, la strada sale dolcemente verso una zona collinare, dove la natura delle Higlands prende il sopravvento, il verde dei prati contrasta con distese viola di erica interrotte da piccoli laghi azzurri, questa è la Scozia che immaginavamo, lasciamo la moto a bordo strada e ci immergiamo tra i colori di questa terra che dona energia e buon umore a chi la percorre con l’animo del viandante.
La stretta strada è deserta, siamo già saliti in sella, ma il motorino d’avviamento rantola e poi tace, per fortuna davanti a noi c’è una lunga e ripida discesa, così ci lanciamo con la marcia in folle, poi inserisco la terza e il motore riprende a girare senza tentennamenti.
Poche miglia e la pioggia comincia a scendere fitta, dobbiamo fermarci per mettere le tute, ma il dilemma è: “Sarà abbastanza carica la batteria? Quindi spegnere o lasciare acceso il motore?” Senza pensarci troppo, corro il rischio e spengo. Indossate le attrezzature da pioggia, saliamo a bordo e questa volta basta un solo tocco al pulsante dell’avviamento e la nostra Honda è pronta ripartire.
Abbiamo percorso una quarantina di miglia quando la pioggia è spazzata da un vento forte, che trascina con sé erba e foglie e ci costringe a viaggiare piegati come stessimo percorrendo un’infinita curva. Usciti da quella valle ventosa nei pressi di Golspie ritorna il sole e l’arcobaleno attraversa l’orizzonte, poi la strada entra un fitto bosco, è il parco del Dunrobin Castle, la dimora della contessa del Clan dei Sutherland.
La prima costruzione risale all’inizio del 1300, poi nel 1845 Sir George Leveson-Gower, duca di Sutherland, incaricò l’architetto Sir Charles Barry di rimodellarne completamente il castello.
Colpiti dal suo aspetto da favola decidiamo di fermarci per scoprirne i segreti visitando le duecento stanze e passeggiando nel grande e curatissimo giardino posto sulle rive del mare.
Un’aquila di mare passa radente alle nostre teste per ricordarci, che, in fondo al giardino, sta per cominciare l’esibizione del volo dei rapaci.
L’istruttore ha l’espressione di chi è fiero di ciò che fa, mentre porta sul braccio sinistro un piccolo rapace incappucciato nello chaperon. Per più di un’ora restiamo a testa insù per guardare le evoluzioni delle aquile, che, alte nel cielo, si gettano in picchiata sfiorando il pubblico a grande velocità, per poi fermarsi ubbidienti ai piedi del gran falconiere della corte dei duchi di Sutherland.
Sono le quattro del pomeriggio, quando riprendiamo il nostro viaggio seguendo la costa scozzese. Possiamo ancora percorre una cinquantina di miglia fino a Wick , dove cercheremo una sistemazione per la notte.
La strada sale lungo dei pascoli verdi, mentre la vista spazia sul Mar del Nord e man mano che proseguiamo il panorama diventa sempre più affascinante e selvaggio.
Wick è una cittadina scozzese posta tra il mare e l’omonimo fiume, pare che l’antico significato Vichingo del suo nome fosse baia, oggi in lingua inglese significa stoppino o lucignolo, ma non chiedetelo agli abitanti del posto, vi mettereste nei guai e poi vi toccherà ascoltare un sermone su quanto gli Inglesi e la loro lingua, non abbiano nulla a vedere con gli Scozzesi.
Attraversato il centro, pochi metri dopo la chiesa un cartello indica un B&B e non c’è il temuto cartello “No vacancies”, per cui ci precipitiamo a occupare posto mentre un vento freddo porta nuvole e pioggia.
La cortesia degli Scozzesi è davvero impareggiabile, tanto che il proprietario apre il garage, sposta la sua auto e mi dice di mettere la moto al riparo per la notte, così approfitto per oliare la catena.
Terminati i lavori di manutenzione mi guardo attorno e noto che le mensole sono interamente occupate da una gran quantità di stoviglie di stile inglese e padelle per alberghi, di certo tutta quest’attrezzatura non gli serve per affittare due camere, chissà, forse ha fatto un affare oppure ha intenzione di ingrandirsi.
Difronte alla casa c’è un vasto prato, che pecore e gabbiani percorrono avanti e indietro alla ricerca di cibo, oltre il campo c’è un ponte pedonale che attraversa il fiume Wich per raggiungere il centro della città.
Prima di uscire il proprietario ci chiede di ordinare la collazione per domani e la risposta è breve:
” two full Scottish breakfast”, poi c’incamminiamo verso il centro della città; le case grigie e la pioggia che lucida l’asfalto, rende tutto un po’ triste.
D’improvviso un acquazzone ci costringe a entrare in un pub, i pochi avventori ci osservano per qualche secondo poi continuano a pensare ai fatti loro davanti a una pinta di birra.
Ci sediamo a un tavolo e ordiniamo una birra scura. Il jukebox suona “Take me out” dei Franz Ferdinand, mentre al tavolo del bigliardo, tra un sorso e l’altro di birra, si svolge lenta una partita cominciata chissà quando. Sul divano accanto al nostro tavolo un tizio completamente ubriaco cerca di cantare assieme al jukebox, poi si toglie le scarpe, si distende e si mette a dormire; un cliente scuote la testa e finge di non vedere, invece il suo border collie osserva con attenzione ogni movimento. Il barista, visto il tasso alcolico del suo cliente, chiama un taxi, poi lo aiuta a salire, lo spedisce a casa e passando accanto al nostro tavolo si scusa dell’accaduto temendo che il tizio ci abbia infastidito, ma così non è, siamo a nostro agio in questo pub di periferia dove si entra da ragazzi e se ne esce da vecchi, perché altro qui non c’è da fare.
Ceniamo in un ristorante vicino al porto cozze e bistecche d’agnello, poi riprendiamo la strada verso il B&B, mentre il sole torna a farsi vedere tra le nuvole.
Nei pressi della chiesa del paese sentiamo suoni di cornamuse e rulli di tamburo, la musica irresistibilmente ci attrae e, per quanto non invitati, entriamo nell’oratorio dove una banda formata da sei cornamuse e sei tamburi fa ballare danze popolari a dei ragazzini. È il più spontaneo spettacolo folcloristico a cui avremmo potuto assistere, così restiamo fino alla fine e poi facciamo la nostra piccola donazione alla cassa tra i sorrisi dei partecipanti, che non si aspettavano dei turisti al loro spettacolo.
20 agosto 2017
La tavola per il breakfast è imbandita in stile scozzese, tovaglia rosa e stoviglie dello stesso colore e quando arriva la colazione approfittiamo per chiedere informazioni sulla zona, il consiglio che c’è dato è di arrivare a John O’Groats seguendo la costa, per poi di proseguire fino a Thurso e raggiungere il porto di Scrabster, dove un aliscafo ci porterà a Stromness, nelle Isole Orcadi.
A dire il vero ci avevo pensato, ma le Orcadi mi sembravano troppo lontane, ora invece siamo a un’ora dall’imbarco. Un dépliant posto all’ingresso descrive la natura selvaggia e gli insediamenti dell’età della pietra di queste isole e noi non possiamo restare indifferenti, è deciso continuiamo a seguire la costa per poi imbarcarci e raggiungere le isole Arcaibh, è il loro nome in lingua scozzese.
Le miglia per raggiungere Thurso sono poche, ma il verde dei prati a picco sulle scogliere distrae la nostra attenzione dalla meta.
Ogni sosta è un attimo di pace lungo quanto un indefinibile tempo.
Una tappa a John O’ Groats è necessaria per immortalare l’avvenuto attraversamento del Regno Unito da sud all’estremo Nord-Est.
Nel piccolo porto di Thurso c’è parecchio movimento di auto e camper, ma con la moto siamo fortunati e per l’imbarco dobbiamo attendere meno di un’ora, nel frattempo chiacchieriamo con un motociclista inglese diretto alle isole Shetland.
Dopo aver assicurato le moto saliamo sul ponte e mentre l’aliscafo aumenta la velocità, anche vento e mare si fanno più forti, così gran parte dei passeggeri si ritira al coperto, invece noi, ben protetti dagli indumenti motociclistici, restiamo all’aperto a goderci l’attraversata.
L’aliscafo rallenta e suona la sirena avvisando del suo arrivo, mentre una flotta di piccole barche veleggia con vento teso all’uscita del porto di Stromness nell’isola di Mainland.
Salutiamo il motociclista Inglese, che deve proseguire per Kirkwall per poi imbarcarsi verso le Shetland, noi invece ci inoltriamo tra queste isole bagnate a ovest dall’Oceano Atlantico e a Est dal Mar del Nord. Attraversiamo la Mainland, poi, percorrendo ponti e strade sopraelevate, passiamo di isola in isola sino all’estrema punta di Tomb of the Eagles, poi c’è solo l’Oceano.
Ritorniamo sui nostri passi fino a Kirkwall per cercare un posto dove passare la notte, ma i pochi bed & breakfast che incontriamo espongono il cartello: “No vacancis”, non ci resta che seguire le indicazioni del Lynnfield Hotel.
Una strada privata delimitata da un’alta siepe raggiunge la cima del colle dove sorge l’Hotel dai muri azzurri e il tetto di ardesia grigia. La storia si ripete e come a Canterbury, è tutto occupato, solo la suite è libera e sentito il prezzo chiediamo di un campeggio, ma l’addetta alla reception controlla le prenotazioni e poi dice:”Se è per una sola notte il prezzo è quello di una camera normale e vi posso fare anche uno sconto”, c’è poco da discutere, accettiamo.
La scala di legno che porta alle camere scricchiola mentre salgo trasportando le borse, poi un giro di chiave e mi trovo in una grande stanza arredata con mobili antichi e letto a baldacchino; il bagno è ancora più grande con la vasca jacuzzi illuminata e la doccia multi getti. Anche se i nostri indumenti motociclistici mostrano tutti i chilometri percorsi e nelle nostre valigie non c’è lo smoking, ci sentiamo due star, ma per non lasciarci ingannare da questo benessere inforchiamo la moto e andiamo alla ricerche delle tracce dei villaggi dell’età della pietra.
Usciti dal Kirkwall imbocchiamo la strada che porta a Standing Stones of Stennees, un sito primitivo che risale a più di tremila anni avanti Cristo. Non c’è traffico e la via a una careggiata attraversa praterie dove le mucche highlander, dal lungo pelo rossiccio e dalle grandi corna, pascolano tranquille.
Camminare tra alte e scure lame di pietra, piantate nel verde dell’erba, produce una strana ebbrezza; sarà la suggestione di questo luogo solitario, o forse il lento pascolare delle pecore, che mi fa sentire legato a questa terra da secolari richiami persi nel tempo, allora allargo le braccia e come un druido mi trovo tra storia e magia; poi c’inoltriamo tra i resti dell’antico villaggio dove sorgevano capanne di pietra e paglia, dimore di uomini dalle braccia forti e donne dai lunghi capelli biondi.
Le strette vie, che percorriamo, costeggiano pascoli a picco sul mare e il desiderio di attraversare a piedi nudi i prati fino al bagnasciuga è un comando a cui non si può disubbidire.
Cercando conchiglie e sassi scolpiti dall’acqua troviamo, come un trofeo, un corno d’ariete, forse perso durante il combattimento per il dominio del territorio.
È quasi sera quando imbocchiamo l’A 966 per ritornare al Kirkwall, la strada segue la costa ovest dell’isola attraversando villaggi e case solitarie adornate da aiuole fiorite, che il clima temperato e umido fa crescere spontanee e rigogliose.
In hotel il nostro tavolo per la cena è già pronto; birra scozzese, braciole di pecora e patate fritte e per finire il cheesecake, poi ci ritiriamo nella stanza per la degustazione. Apro la porta silenziosamente mentre leggo la frase scritta sul vetro: “drink tea to forget the nois of the world”, (si beve il tè per dimenticare il rumore del mondo).
Seduto su una comoda poltrona in pelle osservo gli antichi arredi in originale stile scozzese e davanti a me un tavolino colmo di bicchieri, sapientemente svuotati da una coppia di coniugi inglesi intenditori di whisky, che assaggiano, poi si confrontano e annotano le loro impressioni gustative su un libro dall’elegante copertina in pelle nera.
Anche noi ordiniamo due Highland Park invecchiati diciotto anni provenienti dalla distilleria più a nord del mondo, poi, non contenti, ordiniamo altri due Lagavulin di sedici anni dal sapore salino e torbato, ma ciò che non sapevamo è che un dram, cioè l’equivalente di venticinque millilitri, in sostanza un cicchetto di scotch, costa quindici euro, per cui sessanta euro immolati al raffinato piacere del palato. Uscendo dalla stanza del tè do un ultimo sguardo al tavolo, dove gli assaggiatori inglesi hanno lasciato più di venti bicchieri vuoti.
Saliamo le scricchiolanti scale in legno, che portano alla nostra suite, ricambiando il sorriso della direttrice con il nostro sodisfatto e stanco.
Appena entrato in camera mi butto sul letto, il baldacchino trema e le tende si scuotono, mentre il morbido materasso mi avvolge. Resto qualche minuto disteso ad esplorare con gli occhi questa stanza da star, poi, con addosso l’accappatoio, riempio la vasca Jacuzzi, accendo le luci sommerse e m’immergo lasciandomi massaggiare dai getti d’acqua fino ad addormentarmi.
21 agosto 2017
Il sole filtra tra le pesanti tende blu che oscurano le finestre, è mattina. Profumo ancora di sapone ed essenze da bagno, ma è ora di ripartire e m’infilo gli abiti da motociclista, che sembrano più sporchi di ieri.
Un ricco buffet ci aspetta nella sala per il breakfast, poi la cameriera ci porta uova e bacon e l’immancabile Black pudding.
Ben riposati la moto sembra più leggera ed anche il sole ci segue lungo questa stretta strada di campagna, quando, tra il verde dei pascoli, una rossa e solitaria cabina telefonica rende il paesaggio surreale. Non mi azzardo ad entrare e girare il disco del telefono, potrei all’improvviso ritrovarmi nel primo giorno in cui entrò in funzione nell’anno 1924.
Attraversiamo il ponte che collega la Mainland all’isoletta di Lamb Holm, un cartello a grandi lettere indica: “Italian Chapel” .
È una piccola chiesa bianca, posta tra il mare e la brughiera sferzata dal vento, dall’aspetto semplice, ma la sua storia merita l’importanza che la gente del posto attribuisce a questo luogo.
Durante la seconda guerra mondiale tra il 1941 e il 1943 alcuni prigionieri Italiani furono portati su queste isole per contribuire con il loro lavoro a migliorare le strutture dell’arcipelago. Gli abitanti del luogo accettarono con benevolenza l’arrivo degli Italiani, condividendo con loro usi e costumi.
I prigionieri, che vivevano nel campo dell’isola di Lamb Holm, chiesero di costruire una piccola chiesa dove svolgere funzioni religiose a cui tutti potessero partecipare.
Il permesso fu accordato e la chiesetta fu costruita con i corrugati militari per le pareti, mentre le piastrelle furono prese dalle navi affondate nell’arcipelago.
Il prigioniero Domenico Chiocchetti, artista di Moena, fece le decorazioni impastando con la sabbia le vernici provenienti dalle tipografie trasformandole in affreschi e vetri dipinti.
Il soldato Giuseppe Palumbi progettò e costruì i cancelli in ferro battuto e durante i lavori s’innamorò perdutamente di una ragazza delle Orcadi; era però sposato e sapeva che alla fine della guerra avrebbe potuto portare con sé solo il ricordo di lei, così per non farsi dimenticare le lasciò un regalo.
La storia racconta, che Giuseppe disse alla ragazza di entrare nella cappella e di non guardare gli affreschi, come avrebbero fatto tutti, ma di prendere tra le mani il cancelletto in ferro, per poi chiuderlo e abbassando lo sguardo avrebbe visto le due estremità unirsi formando un cuore, quello che lui lasciò alle Orcadi nella primavera del 1945.
Finita la guerra la cappella divenne il simbolo di una fratellanza nata tra coloro che avrebbero dovuto chiamarsi nemici.
Nel 1959 la BBC s’interessò a questa storia e rintracciò a Moena il Chiocchetti per intervistarlo, da ciò nacque un nuovo interesse che portò nel 1960 alla ristrutturazione della chiesa diretta dall’artista Trentino.
Riprendiamo la North Coast 500.
Il traghetto, che ci porterà alla Gill’s Bay sulla costa nord della Scozia, parte alle tredici e trena ed è già mezzogiorno, per cui risaliamo in moto e percorriamo le poche miglia che ci separano dal porto di S. Margaret’s Hope pronti ad imbarcarci e continuare a vagabondare.
“Questo lo dobbiamo vedere da vicino”. Siamo in sella da di dieci minuti quando avvistiamo un castello da fiaba, è il “Queen Elizabeth Castle of Mey”, residenza estiva di: "Sua Maestà Regina Elisabetta, la Regina Madre" morta a centodue anni nel 2002. Da quanto si dice in giro, la fondazione del principe Carlo affitta il maniero per sessantasettemila euro a weekend; non più di dodici fortunati, che, dividendosi la spesa, per due giorni si fanno servire e riverire come fossero la famiglia reale in vacanza.
Noi ci accontentiamo di un ottimo tè scozzese seduti all’aperto davanti a un prato che sembra dipinto, fantasticando storie di sovrani e regine.
Ottantaquattro miglia lungo la costa nord, è quanto ci manca per raggiungere Durness.
Fin dall’inizio del viaggio avevo il desiderio di percorrere questa strada a picco sulle scogliere del nord, che racchiudono spiagge di sabbia rosa, tormentate dalla risacca di un mare gelido sempre mosso dal vento artico. Alla prima sosta annuso l’aria, poi tra le genziane ne ascolto il rumore, lo conosco, è lo stesso vento del nord che l’anno scorso ci ha accompagnato durante il viaggio verso l’Islanda.
La strada ora piega verso l’interno alzandosi sopra la costa, pochi chilometri e la natura delle Highlands ritorna a decorare lembi di terra che circondano piccoli laghi, dove elfi e fate nascondono pentole colme d’oro lasciando segrete tracce tra mucchi di pietre.
Viaggiare lentamente, su questa strada ad una corsia, non è soltanto un dovere, ma significa assaporare ad occhi spalancati e bocca aperta il panorama selvaggio che ad ogni curva riserva una novità da ammirare. Sosta dopo sosta vorrei fermare il tempo; scorgo tra gli scogli una spiaggia deserta, potremmo fermarci qui ad aspettare la notte, distesi sulla sabbia ad ascoltare il mare, ma è ancora presto e Durness non è lontana.
Ora entriamo nel profondo fiordo di Loch Eriboll seguendo l’A838, è incredibile, che quanto vedo sia opera casuale, modellata da eventi naturali. Quella casa laggiù, su quella piccola penisola, unita alla terra da una striscia di sabbia rosa chiusa tra muschi verdi e acque scure, sembra costruita per far dire a chi passa: “Io mi fermo qui”.
Durness
“Ci sono luoghi che ricorderò per tutta la vita e anche se qualcuno è cambiato - qualcuno per sempre e non per il meglio, qualcuno se n'è andato, qualcuno è rimasto - tutti questi luoghi hanno i loro momenti, con amori e amici che ricordo ancora…”
Così cantava John Lennon nel 1965.
Abbiamo raggiunto Durness e mi guardo attorno per trovare il “Memorial”, ma non ci sono indicazioni, abbiamo già attraverso il paese, sono solo poche case, poi la strada prosegue costeggiando la scogliera, dobbiamo tornare indietro e, vista l’ora, cerchiamo un “accommodation”. C’è un cartello che indica un bed & breakfast, così ci inerpichiamo lungo una ripida e sconnessa stradina sterrata che conduce ad una casa isolata, ma quando arriviamo ci dicono che è tutto occupato. Con l’espressione delusa, faccio notare alla proprietaria che siamo arrivati fin qui perché non c’è il cartello no “vacancies”. La proprietaria si scusa dicendo che stava andando proprio adesso a metterlo sulla strada principale; però si sente un po’ in colpa, così ci chiede di seguirla fino alla prossima casa dove una sua vicina ha una stanza libera.
Ad accoglierci due bimbetti festosi gridando: “Mummy people” , subito arriva la padrona di casa e, asciugandosi le mani con un canovaccio, ci saluta sorridente come se aspettasse dei vecchi amici in visita.
In cucina una pentola bolle sul fuoco e sul tavolo ci sono libri colorati e quaderni aperti. Ellen, se ben ricordo il suo nome, ci mostra la stanza, pulita ed ordinata, poi ci consegna le chiavi di casa. Mentre scarico i bagagli arriva il marito di Ellen, che si ferma a chiacchierare con me del viaggio, poi gli sembra che la moto sia parcheggiata pericolosamente in bilico e, mentre ricomincia a piovere, apre il garage, fa un po’ di posto e mi consegna le chiavi dicendo: “quando rientri mettila qui, è più sicura” .
Prima del tramonto riprendiamo la ricerca del John Lennon Memorial Garden. Lo troviamo, proprio sulla strada principale, è solo un piccolo giardino, ornato da bassi cespugli, macchie di erica e al centro tre lastre di pietra riportano le parole della canzone In my life. Più avanti un cartello spiega che il famoso Beatles, dai nove ai sedici anni di età, passava in questo borgo le sue vacanze estive in compagnia del cugino Stan e della zia Mater e dello zio Bert. Non c’è più molto da vedere; mentre sto seduto su una pietra, mi tornano alla mente le parole scritte da Antoine de Saint-Exupéry “Non si vede bene che col cuore, L’essenziale è invisibile agli occhi - l’essenziale è invisibile agli occhi, ripeté il Piccolo Principe”.
È il 1950, John e Stan scendono a piedi nudi fino alla spiaggia e con grida barbare, agitano un bastone in aria per difendere la costa dai pirati. Come poteva sapere quel bambino, dall’infanzia difficile, che cosa la vita gli avrebbe riservato e che cosa il successo gli avrebbe poi tolto.
Il tempo passa è Il primo luglio del 1969.
Lennon è un grande musicista, ma un pessimo pilota e neppure ci vede bene, ma decide ugualmente di guidare la sua Austin Maxi fino Durness, in compagnia di suo figlio Yulian di sei anni e Yoko Ono. Al ritorno, un’improvvisa e stretta curva, affrontata troppo velocemente, gli fa perdere il controllo della sua vecchia auto, così il viaggio si conclude in ospedale.
La notizia arrivò ai giornalisti, che si riversarono in massa per l’intervista, ma le uniche parole di John furono: “Se pensate di avere un incidente d’auto, cercate di fare in modo che si verifichi nelle Highlands”, poi mandò un ironico messaggio ai Beatles: “Sono prigioniero in Scozia. Ho bisogno di un po’ di soldi per uscire di qui, qualche centinaio di sterline dovrebbero bastare”.
John non torno a Durness e l’otto dicembre del 1980 la sua storia finì a New York City, davanti al Dakota Building, con quattro pallottole nella schiena sparate da un folle di passaggio.
Prima che faccia buio entriamo nel bar Oasis, un pub sulla scogliera davanti a alla più bella spiaggia di Durness, è l’ora giusta per una pinta di birra scozzese e uno stinco arrosto. Rientrando verso il B&B ci troviamo in mezzo a un fiume di pecore, che si muove veloce ora di qua, poi di là, condotto da due cani che, a perdi fiato, corrono avanti e indietro mantenendo il gregge compatto e indirizzandolo verso il riparo per la notte. Camminiamo in mezzo a questo mare di lana bianca e come due pastori, seguiamo la strada oltre il paese, fin in cima alla collina, dove ad ovest , mare e cielo, sono divisi dal fascio di luce rossa dell’ultimo raggio di sole al tramonto. È già buio quando rientriamo a casa, i bambini dormono e sottovoce auguriamo la buona notte ai padroni di casa.
FINE
Della seconda parte
Andrea & Rossana
22 agosto 2017
Alle sette del mattino il breakfast è pronto nel salotto buono, dove la televisione comunica le notizie sul tempo: “Pioggia, sole e nuvole sparse, temperatura tra gli otto e i quindici gradi”. Io e Rossana ci accomodiamo al tavolo, il porridge è già pronto, quando due bambini attraversano la stanza salutando: “Hi”. Poi arrivano uova, pancetta, il black pudding ed anche caffè nero con pane, marmellate e burro.
Con la moto carica esco dal garage salutando Ellen, mentre: “Uno, due, tre” Rossana salta in sella e riprendiamo la nostra strada.
La costa ovest è selvaggia e poco abitata, i fiordi s’insinuano profondamente nell’entroterra delimitati dalle alte e scoscese scogliere, contornate d’erica e verdi pascoli. Allontanandoci dal mare saliamo lungo strade che attraversano alpeggi e richiamano alla mente le alte malghe alpine macchiate dal viola dell’erica, poi si ergono montagne più aspre dal colore verde smeraldo, che ricordano la gelida Islanda.
I grandi spazi e la solitudine di questi luoghi danno l’ebrezza della libertà.
Curva dopo curva potrei lasciar correre la moto come in volo senza desiderare altro.
Ora la strada scende seguendo un precipitoso ruscello, che poi rallenta la corsa allargando il suo letto per riposare.
Superata la cittadina di Ullapool, il nostro percorso prosegue lungo i profondi fiordi che penetrano la Scozia fino a confondersi con i laghi dell’interno, dove, al delimitare delle acque, sorgono ruderi di antichi castelli.
La Strada costeggia il Loch Maree per poi terminare al villaggio di Nostie, tra il ponte per l’isola di Skye e il castello di Eilean Donan.
Per sgranchirci le gambe sostiamo alla Kinlochewe Service Station e dopo aver fatto benzina, ci sediamo al bar per prendere il the con i pasticcini. La stazione di servizio è l’unica della zona ed ha anche un piccolo bazar, dove poter acquistare cose utili e souvenir. Rovistando tra gli scaffali trovo delle t-shirt con il disegno di una moto e del percorso che stiamo seguendo da est a ovest. Il gestore mi spiega che la stampa sulla maglietta è la mappa della più bella strada della Scozia da esplorare in moto e prima di partire mi mostra un quadro raffigurante una valle percorsa da una tortuosa via che termina sulle rive
del Loch Clair, spiegandomi che è quella che tra poco attraverseremo.
Percorsi pochi chilometri un cartello con scritto Wiewpoint indica di svoltare a destra seguendo una salita sterrata. Salgo lo sconnesso sentiero con decisione, ma, quasi arrivato in cima, un pulmino fa retromarcia e, invadendo la corsia, mi obbliga a girare bruscamente a destra impedendomi di vedere oltre la sua carrozzeria e proprio in quel momento, dalla parte opposta, sopraggiunge una moto, che sfiorando mi costringe a fermarmi in una posizione dall’equilibrio precario. Cerco di sostenere la moto ma i miei piedi non trovano appoggio, così moto e bagagli si distendono a terra. Io ne esco bene, ma Rossana, seduta tra le borse da viaggio, è catapultata a terra.
Il centauro inglese vista la situazione torna indietro per aiutarmi e poi preoccupato dell’accaduto, abbraccia Rossana scusandosi.
In realtà la colpa non è sua, bensì del conducente del pulmino, che pur vedendo arrivare le moto fa i comodacci suoi e poi se ne va fregandosene di quello che ha combinato.
Ci rimettiamo in ordine, pronti per partire e la mia “zavorrina volante” risale contando: “Uno, Due Tre, Ahi!” poi ritenta.
La moto ed io non abbiamo riportato danni, ma il fondo schiena di Rossana resterà dolorante per tutto il resto del viaggio.
All’incrocio di Nostie giro a sinistra e sbaglio direzione mancando il ponte per l’isola di Skye, siamo difronte al castello di Eilean Donan. Ormai non vale la pena tornare indietro, così ci fermiamo per fotografare uno dei castelli più famosi della Scozia, quello del film: “Highlander l’immortale”. Cerchiamo un punto da cui si possa vedere anche la montagna ricoperta d’erica, che, riflettendosi, dipinge il lago di viola. Poi proseguiamo alla ricerca di una sistemazione per la notte, domani andremo all’isola di Skye.
sono le cinque del pomeriggio e non dobbiamo fare troppa strada prima di incontrare il Kintail Lodge Hotel, posto sulla riva del del Loch Duich.
Apro la masiccia porta in legno, ad accogliermi la luce soffusa del pub e mentre gli avventori osservano la mia tenuta da motociclista bagnato, con fare amichevole, mi viene incontro l’addetta alla reception. Chiedo se c’è una stanza libera, ma la riposta non mi è chiara, la signora dice qualcosa a riguardo dei letti e del fatto che non riuscirà a dormire, la gente ride, così rido anch’io, poi con la chiave in mano mi prende sottobraccio e mi accompagna fino alla nostra stanza.
Non ho capito bene il prezzo, ma non voglio dilungarmi in richieste, perché a Rossana duole la schiena ed è necessario un massaggio con una crema curativa.
Per cena abbiamo la compagnia di un border collie bianco e nero, che, per quanto il cameriere provi a mandarlo fuori dalla sala da pranzo, resta sotto il nostro tavolo aspettando un pezzeto delle succolente bistecche di Angus e non disdegna nemmeno le patate al forno. Ci siamo fatti un amico, che ci seguirà per tutta la sera.
23 agosto 2017
Siamo in piedi di buona mattina e piove, d’altronde non è una novità. Mentre scendo le scale con i bagagli, il primo a venirmi incontro è il border colie, che scodinzolando annusa le valigie e con un delicato saltello mi dà il buon giorno.
La sala del breakfast è aperta e non manca nessuna delle prelibatezze Scozesi, poi non resta che pagare il conto, un po’ salato, ma in fin dei conti siamo stati bene e lo stile familiare e simpatico della proprietaria mi fa sorridere anche mentre la carta di credito adempie al suo dovere.
Dobbiamo riprendere la strada della sera prima e ripassare difronte al castello di Eilean Donan, ancora una sosta per guardare da un’altra prospettiva le sue antiche e grigie mura.
Le nuvole corrono sopra il ponte dell’ l’isola di Skyie, poi lasciano il posto al cielo azzuro, ma non durerà, ritorneranno muovendosi veloci tra fiordi e montagne.
Superta la cittadina di Ashaig la strada, pur non allontanadosi dalla costa, sale verso verso alti pascoli e mentre alla nostra sinistra possiamo ammirare un panorama montano, basta volgere lo sguardo per vedere le ripide scogliere e poi il mare.
Raggiunto Silgachan, decidiamo di abbandonare la A87, per dirigerci verso Talisker, dove si produce uno dei whisky più famosi della Scozia.
Dal 1830 la distilleria Talisker attingie l’acqua dal Cnoc-nan-Speireag (collina del falco), da dove sgorgano quattordici sorgenti d’acqua purissima filtrate dalla torba e forse è proprio quest’acqua che dà il caratteristico sapore di affumicato allo scotch dell’isola di Skyie.
Entriamo a curiosare tra alambicchi e botti, che, da venticinque anni attendono di essere aperte, poi acquistiamo qualche bottiglia, le più piccole, in modo da poterle stipare tra i bagagli.
Attraversando l’isola i pascoli diventano sempre più verdi e il mare più scuro, la stretta strada sale e scende lungo la scogliera per poi attraversare un altopiano prima di raggiungere Portree.
Facciamo sosta su una piazzola, quando da lontano sentiamo un fischio, poi lo sferragliare di un treno e quando da dietro la collina si alza del fumo bianco compare una vecchia locomotiva a vapore nera, che traina dei vagoni rossi. Sembra di essere tornati indietro nel tempo,è il treno di Hery Potter, quello che parte da Glasgow al binario 9 ¾ per raggiungere Hogwarts.
Pochi chilometri prima della nostra meta, attraversiamo una zona dove molte fattorie espongono l’indicazione del bed and brekfast, lascio la moto sulla strada e mi avvio a piedi lungo il sentiero, quando un cane abbiando minacciosamente mi ferma, poi arriva la sua la padrona e mi spiega che purtroppo non ci sono stanze libere, ma che a Portree troverò di sicuro da dormire.
Sono le due del pomeriggio quando ci fermiamo a Portree. Un cartello indica la direzione per l’ostello ed anche per il campeggio, così decidiamo di prenotare una stanza in modo di poter poi visitare l’isola fino alla punta più a nord senza timore di trovare poi il cartello “No vacancis” .
Le camere dell’ostello non sono un granchè, però sono pulite e il prezzo è buono, ma la colazione bisogna farsela da soli.
Scaricati i bagagli, la moto diventa leggera ed è un piacere guidare su queste strade solitarie che attraversano una natura rimasta selvaggia.
Abbandonata la via principale imbocco un sentiero sterrato, che attraverso un villaggio di poche case, raggiunge il mare, terminando in un piccolo scalo di barche da pesca. Il luogo è solitario, ricco di sugestivi colori e forme, è il posto perfetto per fermarsi a riposare guardando oltre l’infinito.
Tra noi e il mare, una vecchia barca, volgendo la prua alle minacciose nuvole che salgono da nord, se ne sta accovacciata tra l’erba per nascondere i segni del tempo impressi sulla chiglia. Il vento potrebbe chiederle di navigare, è ancora una barca, ma il legno è debole e la catena che la trattiene è forte. La terra ormai è un luogo sicuro dove attendere che i giorni scorrano senza temere naufragi.
Restiamo per un po’ seduti sul bordo della strada con la faccia al sole respirando l’aria di mare, poi infiliamo le giacche e ripercorriamo lo stretto sentiero che attraversa le poche case dove, al nostro passagio, i bambini smettono di dar calci al pallone per guardare chi passa.
Curva dopo curva arriviamo ad un antico villaggio trasformato in museo della tradizione scozzese. Bisogna pagare il biglietto per visitare l’interno, ma noi ci accontentiamo di osservare dall’esterno quelle antiche case chiamate blackhouse.
Queste capanne erano costruite con muretti a secco e tetti di paglia. Il fuoco di torba, illuminava la cucina e il soggiorno, le case non avevano camini, così il soffocante fumo usciva attraverso il tetto annerendo la paglia.
La trascrizione da un antico testo così descrive gli abitanti del villaggio: “Trascorrono tutto il loro tempo in guerra e, in assenza di guerre, si combattono l’un l’altro”, guardando oggi questi luoghi, si prova, invece, una sensazione di pace. Forse quelle poche righe sono state scritte dagli inglesi nel XIII secolo quando William Wallace (l’eroe di Braveheart) voleva la Scozia libera dalla tirannia di Edoardo Plantageneto re d’Inghilterra.
Il tempo lascia l’eco di ciò che è stato, allora mi piace immaginare, che tra queste case Muron, ancora bambina, doni al suo futuro sposo William il fiore di cardo simbolo della Scozia.
Continuiamo il nostro girovagare fermandoci di piazzola in piazzola ad ammirare il panorama, quando, nei pressi di Duntulm Castel, per ripartire spingo il bottone dell’accensione, ma tutto tace e il carica batteria è rimasto all’ostello; non resta che la vecchia maniera, così ingrano la terza e spingo con forza la moto lungo la discesa,però, quando lascio la frizione, la ruota stride sull asfalto e i grossi pistoni restano immobili. Accosto sul bordo strada e, mentre Rossana mi raggiunge a piedi, si ferma un auto scozzese. Ci capiamo subito, così il conducente apre il bagagliaio ed estrae alcune canne da pesca, un cestino, varie esche e anche un sggiolino e un telo, ma neppure un pesce; allora gli chiedo: “ come è andata la pesca?”, “The fishing went well”, risponde, “ma i pesci li ributto in mare, a me il pesce non piace”, poi trova anche i cavi per collegare le batterie.
Abbiamo occupato tutta la careggiata, per fortuna non passa nessuno, ora la mia piccola batteria è collegata alla sua molto più grossa e basta sfiorare l’accensione che tutto torna a funzionare.
Dopo molti “Thank you” e strette di mano decidiamo di non attraversare l’interno per raggiungere la costa est, perché, se per qualche motivo il motore si spegnesse tra quelle lande desolate, sarebbe troppo sperare nella fortuna d’incontrare un altro scozzese ben attrezzato.
Arrivati all’ostello comincia a piovere e Rossana si accende una sigaretta, la proprietaria, vedendola senza riparo, la invita nella veranda per fumatori dove assieme fumano e bevono del tè chiacchierando di maree, di figli e nipoti. Le osservo attraverso i vetri e, mentre la bassa marea scopre le alghe, il ricomparso sole lentamente scende dietro la scogliera.
24 agosto 2017
Anche questa mattina piove, carico i bagagli, asciugo la sella e provo a mettere in moto, ma niente da fare, allora collego il booster alla batteria e il motore riprende il suo lavoro senza tentennamenti.
Scenderemo a sud fino ad Armadale dove il traghetto ci porterà a Mallaig, per poi proseguire verso Glencoe.
Percorriamo le sessanta miglia con calma e con qualche deviazione verso il mare, scoprendo esclusivi campi da golf e pascoli frequentati da greggi di pecore.
Raggiunto il porto di Armadale scopriamo, che fino alle quattro di sera non c’è un posto in traghetto,sono da poco passate le dieci del mattino e dovremmo restare in zona per sei ore, così decidiamo di risalire verso il ponte percorrendo nuove strade.
Dopo tre ore di viaggio, seguendo strette lingue d’asfalto che attraversano le highlands, ci ritroviamo difronte al Kintail Lodge Hotel, proprio dove avevamo pernottato due giorni prima.
Lungo la A87 non troviamo deviazioni che permettano di seguire la costa, così siamo costretti a innoltraci fino alla città di Fort Wiliam ai piedi del Ben Nevis, che è il monte più alto della Scozia. Non dico a Rossana l’idea che mi frulla nella testa di fermarci per la notte qui e poi la mattina seguente salire fino alla cima della montagna per ammirare il panorama che spazzia dalle Highlands alle isole della costa ovest; non posso dirglielo perché sta piovendo a dirotto e poi una camminata di otto ore, con la schiena dolorante dopo la caduta, non è neppure immaginabile.
Sono le cinque della sera e ho gli stivali zuppi d’acqua, non sono così impermeabili come diceva il commesso il giorno dell’acquisto, d’altronde sono passati cinque anni da allora e oggi potevo ben infilarmi le ghette impermeabili. È innutile ormai arrivare fino a Mallaig per cui decidiamo di fermarci a Arisaig un piccolo porto sul Loch Nan Ceall. l’unica locanda di questo paesino di mare è la Old Library Lodge, che ha l’aspetto di una vecchia trattoria con camere, ma purtroppo sono tutte occupate.
Proseguendo la ricerca di una sistemazione per la notte troviamo un indicazione scritta su un pezzo di legno malconcio che indica un B&B old style. Chissà cosa intendono per vecchio stile, difficile capirlo, però la casa sembra perfetta per un film horror. Provo a suonare un campanello, ma non funziona, poi spingo un portoncino di metallo ruggine, che cigola sinistramente ed immette in un giardino abbandonato, mi guardo attorno e vedo da una finestra uscire una fioca luce attraversata all’improvviso da un’ombra scura, allora ad alta voce chiedo: “Is there anyone? –C’è qualcuno?” , poi mi arrischio a bussare alla porta, ma nessuno apre. Sulla porta d’ingresso c’è un cartello scolorito che avvisa i clienti che l’orario di rientro è inderogabilmente le dieci di sera, ma chissà se qualcuno è mai uscito da questa casa?
Per fortuna nessuno apre, così proseguiamo la nostra ricerca che ha subito fine a un centinaio di metri dopo davanti a una casetta con un piccolo giardino fiorito, arricchito da animaletti di gesso, nanetti e da un trenino di legno, poi accovacciato sull’entrata c’è un cane, anche lui di gesso, ma sembra vero.
L’unica stanza è libera e ne prendiamo possesso, poi apriamo i bagagli e stendiamo ad asciugare le tute bagnate, faccendo attenzione a non innumidire le coperte in raso color beige e rosa del letto matrimoniale in ottone. “Molto bene “ dico, “ C’è anche il phon” e mi sembra un ottima idea usarlo per asciugare gli stivali, ma in breve il troppo calore bruciaa la resistenza rendendolo inservibile, così, quando Rossana esce dalla doccia, trova la spiacevole sorpresa di doversi tenere i capelli bagnati e io ho dovuto ammettere la mia sbadataggine ed incompetenza in materia di elettrodomestici. Verificata la defintiva fine del phon, siamo usciti per andare a cena all’Old Library Lodge; io con gli stivali asciutti e Rossana con i capelli ancora bagnati.
25 agosto 2017
Alle sette e trenta la tavola è già preparata nel bow window, tovaglia rosa, tazze di porcellana bianca con dei piccoli fiori e una gran quantità di cibo. Sui vetri batte una pioggerella fredda e sottile portata dal vento, dalla parte opposta della stanza c’è una stufa accesa: “Solo un paio d’ore la mattina, per l’umidità” dice la padrona di casa, mentre ci porta caffè nero e tè verde. Sopra i mobili ci sono le fotografie di famiglia, le più vecchie in bianco e nero e poi quelle a colori dei figli e dei nipoti.
Prima di partire m’infilo le ghette impermeabili, non ho intenzione di tenere i piedi in umido anche oggi, poi in sella alla moto Rossana ed io consultiamo la guida che descrive la vallata di Glencoe come la più affascinante della Scozia. Per raggiungerla decidiamo di non seguire la strada principale, ma di dirigerci verso Acharacle e costeggiare il fiordo Loch Sunart fino a Coran e da qui al villaggio di Glencoe, per poi inoltraci nell’omonima valle.
Percorriamo le sessantadue miglia riempiendoci gli occhi di panorami pastorali e villaggi di pescatori, respirando la salsedine del mare e l’aria umida dei pascoli.
Tra le rive del Loch Leven e l’imbocco della valle c’è il villaggio di Glencoe, da qui percorreremo la Geotrail per vedere come i ghiacciai e le violente esplosioni vulcaniche hanno scavato le aspre cime del Glen.
Abbandonata la A82 imbocchiamo la strada che segue il fiume, purtroppo piove e le nuvole basse coprono le cime delle montagne, ma anche se la visibilità è scarsa riconosco la strada del film Skyfall, che James Bond percorre con la storica Aston Martin DB5. Mi fermo nel punto in cui Bond in compagnia di M, la direttrice dei servizi segreti, guarda con nostalgia i luoghi della sua giovinezza.
Anche nel film, come oggi, le nuvole oscurano la valle e non c’era titolo più adatto di Skyfall, che significa cielo caduto.
Avrei voluto anch’io dire: “Il mio nome è Bond, James Bond”, poi raggiungere la vecchia casa di famiglia diventando l’eroe dell’ultima battaglia.
Riprendiamo la nostra strada nella stretta gola che segue il fiume Glencoe, fin quando incontriamo l’hotel, Clacaigh Inn posto difronte alla montagna più alta e decidiamo di fare una sosta. Al riparo sotto il porticato, con una birra appoggiata sul tavolo, in silienzo osserviamo questa valle ruvida, selvaggia ed oggi rattristata da un cielo cupo ornato da nuvole basse, anche se , questa sottile malinconia la rende più bella e romantica.
A farci compagnia un pettirosso incurante della pioggia.
La valle di Glencoe è anche soprannominata la valle delle lacrime a causa di una sanguinoso tradimento che il capitano Robert Campbell, alla comando di centoventi uomini della fanteria di Argylle, perpetrò nei confronti del Clan dei MacDonald.
Era la fine di gennaio del 1692, quando Robert Campbell e i suoi centoventi fanti chiesero ospitalità e, benchè non fossero amici, Alexander MacDonald di Glencoe, rispettando la tradizione Scozzese, diede alloggio a Campbell per due settimane.
Il dodici febbraio, con il pretesto di dover dare un esempio a chi non gli aveva giurato fedeltà, Guglielmo terzo, re d’Inghilterra, inviò il seguente ordine a Campbell:
“Signore, vi si ordina con la seguente di catturare i Ribelli, i MacDonald di Glencoe, e di passare a fil di spada tutti coloro di età inferiore ai 70 anni. Avrete particolare attenzione affinché la vecchia Volpe ed i suoi Figli non riescano a fuggire e a fare in modo di tagliare ogni via di fuga. Questo ordine dovrà essere eseguito entro le cinque del mattino, quando io arriverò da voi con dei rinforzi. Se non sarò arrivato per quell’ora eseguite gli ordini senza di me. Questo è un ordine Speciale del Re per il bene e la salvezza del paese, affinché a questi miscredenti vengano tagliate radici e rami.”
La notta tra il dodici e il tredici febbraio i MacDonald vennero massacrati nel sonno violando il tradizionale codice di ospitalità delle Highlands.
Ancora oggi, una targa all’ingresso del Clacaigh Inn, ricorda l’evento con questo avviso: “Vietato l’ingresso ai venditori ambulanti e ai Campbell”.
Dopo aver chiacchierato con due turiste spagnole, riprendiamo il viaggio verso Glasgow percorrendo la valle lentamente per far nostro lo spirito di questi luoghi dove i fantasmi del passato ancora cercano giustizia.
Seguendo l’A82, lo sguardo penetra tra le gole delle montagne Bidean nam Bian lungo uno stretto sentiero che conduce alla disabitata Lost Valley, dove, un affidabile anziano scozzese giura d’aver visto aggirarsi il fantasma di Alexander MacDonald di Glencoe in una notte di plenilunio.
Abbiamo percorso appena quaranta miglia quando incontriamo il Dovres Inn un’affascinate locanda in pietra del XIII secolo, poco più avanti un cartello indica che la strada è bloccata da un incidente. Pare che una corriera e un camper non si siano comportati da gentlemen ed abbiano fatto a gara a chi passava per primo in un strettoria, inevitabilmente incastrandosi l’un l’altro, tra il muro di una casa e gli alberi a bordo strada. Considerato che andranno delle ore per liberare la strada decidiamo di pernottare in questa carattersitica ed anche un po’spettrale locanda.
Ad accoglierci un grizzly impagliato, un armatura medievale, decine di trofei di caccia e alla reception una sorridente scozzese dai capelli rossi. Chiedo, parlando in inglese, una stanza libera e così continua il nostro colloquio, fin quando la ragazza tace, mi guarda fisso e dice con accento napoletano. “Ma, siete italiani ? Me lo potevate dire subito” e si dà un gran daffare per trovarci la stanza migliore, poi racconta di aver vissuto a Napoli per cinque anni e di aver intenzione di tornarci prima o poi.
È ancora presto, sono da poco passate le quattro del pomeriggio, così scaricati i bagagli risaliamo in moto per andare alle cascate Falls Of Falloch.
Arrivati sul posto abbiamo qualche difficolta a sistemare la moto, perché il parcheggio è una pozza di fango e il cavalletto sprofonda, finalmente trovo un punto con il terreno solido a fianco di un furgone Volkswagen che, più che dipinto, definirei illustrato nel perfetto stile hippy. Cinque di minuti di cammino lungo un sentiero tra ruscelli e vecchi alberi e raggiungiamo la cascata, non è particolarmente interessante se non fosse che, per il suo colore ambrato e la spuma bianca prodotta dal precipitare dell’acqua, mi ricorda la birra quando spillata dalla botte fluisce abbondante nel bicchiere.
All’inizio della passerella di ferro, che conduce più vicino alla cascata, c’è una targa che dedica l’opera a John Kennedy, al termine del pontile per riparo c’è una spalliera di ferro intagliato che riporta le parole scritte da Dorothy Wordsworth nel 1803:
“Come da una grande altezza sulla montagna, ci siamo seduti e abbiamo sentito, come se dal cuore della terra il suono dei torrenti salisse dalla lunga vallata cava. immobile, una perfetta immobilità. Il rumore delle acque non sembrava venire da questa parte o da quella, era ogni dove, come se esalasse attraverso l'intera superficie della terra verde. Dovremmo chiamarla la Vale del terribile suono”.
Allontanandomi, forse suggestionato da quelle parole intagliate nel metallo, continuavo a sentire il suono della cascata come ne fossi immerso.
Non sono ancora le sei di sera, ma piove a dirotto e così decidiamo di rifugiarci al pub Dovres.
L’ambiente si è riempito, la cornamusa degli AC/DC si fa sentire dalle casse acustiche e le birre scivolano lungo il bancone lasciando cadere la schiuma prima di raggiungere gli assetati scozzesi. Vestita con il tartan Kilt, una cameriera dai capelli rossi e dall’aspetto combattivo, che ricorda le battaglie di Braveheart, mi spiega che se voglio bere o mangiare devo andare al bancone, quindi pagare e lei mi porterà l’ordinazione.
Sopra la nostra testa, a sottolineare quanto sia importante un pub da queste parti o disperate le mogli scozzesi, un cartello riporta questa frase: "When I die I would like to be buried in this pub, so my husband will visit me at least 7 times a week” - Quando morirò, vorrei essere seppellita in questo pub, così mio marito verrà a trovarmi almeno 7 volte la settimana -
Tra una birra e l’altra, un piatto di hagis e un assaggio di cervo in umido, si è fatto tardi e il locale si sta svuotando, i camerieri rallentano il loro andirivieni mentre la musica sfuma. Usciamo dal locale che è buio, mentre una sottile pioggia ci bagna, la nostra stanza è dall’altra parte della strada in un fabbricato più nuovo e comodo. Seduti sul letto apriamo la carta geografica della Scozia, domani attraverseremo il Loch Lomond & The Trossachs National Park, per poi raggiungere Glasgow.
Fine della terza parte
Andrea &Rossana
Parte quarta
26 agosto 2017
È ancora buio, quando mi sveglio sentendo un canto stonato proveniente dalla stanza vicina. Guardo dalla finestra e ancora piove, mentre gli addetti alla pulizia delle camere trascinano i carrelli della lavanderia chiacchierando e cantando. Alla reception ci informano che la strada è stata liberata, ora ci aspettano cinquanta miglia per raggiungere Glasgow. Fino ad oggi abbiamo visitato villaggi e percorso strade che attraversavano località dalla natura selvaggia, abbiamo evitato Londra e Edimburgo, ma una città dobbiamo visitarla, o perlomeno questo era il nostro proposito. Partiamo di buonora e percorriamo la A82 che costeggia il lago Loch Lomond e in poco più di un’ora raggiungiamo Glasgow. La pioggia non ci ha abbandonato neppure un momento, l’acqua è entrata nel navigatore, che ha smesso di funzionare, inoltre la carta geografica è bagnata e sta disfacendosi, non ci resta che seguire i cartelli con l’indicazione: “Town center”. Non è facile orientarsi in un groviglio di sensi unici, mentre sulla visiera del casco scorre l’acqua. Fermo al semaforo osservo un signore in giacca e cravatta, con il kilt e i calzettoni bianchi, che stringe nella mano la valigetta del manager, poco più lontano un altro scozzese con il gonnellino in tartan attende l’autobus. Credevo che il kilt fosse un indumento usato dagli scozzesi solo nelle ricorrenze, ma devo ricredermi, è un capo d’abbigliamento elegante, da indossare anche al lavoro; però non posso fare a meno di pensare che va portato senza mutande e in una mattina di vento e pioggia come questa, c’è il rischio di dare spettacolo. L’ho chiamato gonnellino? Non dovevo farlo, è offensivo, uno scozzese replicherebbe: “It’s a kilt, not a skirt” (è un kilt e non una gonna). Il semaforo dà il via libera e vedendo a malapena le luci posteriori di un vecchio taxi nero, tanto è lo scroscio d’acqua che scende lungo la visiera del casco, lo seguo mentre si dirige verso il centro città. Raggiunta Buchanan Street, la via centrale di Glasgow, fermo la moto e con il cellulare provo a cercare un albergo, ma lo faccio senza convinzione perché la pioggia e il traffico mi infastidiscono, così ripartiamo subito. Poco più avanti attraversiamo una piazza, dove, incuranti della pioggia, un gruppo di ragazzi in abiti anni sessanta ballano il rock & roll. Restiamo seduti sulla moto soffermandoci a guardare le gonne svolazzanti e le camicette color pastello fradice di pioggia e, mentre l’altoparlante suona Balls of fire di Jerry Lee Lewis, decidiamo di lasciar perdere la visita di Glasgow e proseguire verso il Galles.
Facciamo un paio di lenti giri del centro, tanto per dire che qualcosa abbiamo visto e ci riproponiamo di tornare a Glasgow e a Londra per un weekend tutto compreso, di quelli che arrivi in aereo, poi apri l’ombrello e ti ritrovi su un pulmino che ti porta in albergo. La moto è più adatta alle scogliere del nord e ai solitari altopiani, le strade di Glasgow stanno spegnendo la sensazione di libertà che i grandi spazi delle Highlands hanno impresso nella nostra memoria. Usciti dalla città facciamo sosta ad un distributore per decidere dove andare. Buttata la vecchia carta geografica e acquistata una nuova con il dito seguo la strada fino a Liverpool, poi scendo più a sud per fermarmi in una località segnata in grassetto; è la misteriosa Stonehenge, un luogo dal fascino ancestrale. Possiamo viaggiare ancora per cinque ore prima di dover cercare un posto per la notte. Superata Gretna Green abbandoniamo, con nostalgia, la Scozia e imbocchiamo l’autostrada M6. Proseguendo veloci vediamo scorrere cartelli di città, che fanno tornare in mente vecchie storie lette, o viste nei film. Superiamo Lancaster dove potremmo imbarcarci per l’Irlanda, poi Preston e Manchester ed infine Liverpool. Abbiamo percorso duecentoventi miglia e sono le quattro del pomeriggio, così decidiamo di abbandonare la strada principale e di proseguire nel Galles alla ricerca di un posto dove fermarci per la notte. Percorse quaranta miglia ci fermiamo a Rhuthun, un piccolo paese con un grande castello e poche case attorno. Fermo la moto davanti al Castel Hotel e provo a chiedere una stanza, ma è tutto occupato, però l’addetto alla reception mi dice che potrebbe trovare una sistemazione d’emergenza presso un’abitazione privata e mi fa segno di seguirlo. Uscito dall’Hotel chiedo a Rossana di restare vicino alla moto a guardia dei bagagli, mentre io seguo questo tizio. La mia guida cammina veloce fino davanti a una piccola casa bianca dove, suonando insistentemente il campanello, mi spiega che questa è una delle prima case del paese.
Siccome nessuno apre la porta, il mio accompagnatore, scavalca il cancello, poi bussa alla porta e a gran voce chiama. Finalmente arriva una signora che, asciugandosi le mani sul grembiule, m’invita ad entrare. Attraversiamo un paio di stanze buie e disordinate, poi arriviamo nel retro della casa, dove sotto una tettoia è stata ricavata una stanza fornita di un minuscolo bagno. Quello che potrebbe essere il nostro alloggio è arredato con un divano e un letto ad una piazza e mezza ancora da sistemare. Sullo stendino c’è della biancheria ad asciugare che diffonde nella stanza un buon profumo di bucato, guardo in alto e vedo che il soffitto è un tetto di plastica trasparente che lascia filtrare la luce del sole. La proprietaria, vedendo la mia espressione piuttosto contrariata, cerca di pronunciare qualche parola in italiano: “Italia io sono stata” e mi mostra dei libri d’arte in italiano: “Ho imparato poco italiano, film di commissario Montalbano”; poi riprende a spiegarmi, in inglese, che la stanza è disordinata perché l’ha usata lei la scorsa notte per colpa di suo marito che ronfava e non la lasciava dormire. Dicendo questo riordina con una velocità sorprendente, poi apre la porta che dà sul retro e mi mostra il giardino, dove, come in una piccola foresta, crescevano fiori ed ortaggi mescolati assieme. Mentre osservo questo intrico di piante solo apparentemente disordinato la proprietaria, con aria compiaciuta, mi ha detto: “Questo fa parte della vostra stanza, potete sedervi qui e nessuno vi disturberà”. Non c’eravamo ancora presentati , allora lei mi tende la mano e con una stretta decisa dice in italiano: “Il mio nome è Eleanor” e io le chiedo: “ Come nella canzone dei Beatles Eleanor Rigby “ , così lei mi racconta, che una sua zia insegnava al Liverpool Institute ed aveva avuto come allievo Paul McCartney di cui diceva: “Paul ? Un bravo studente, uno dei migliori !”. Non avevo più il coraggio di dirle che la stanza era uno schifo e che avrei cercato altrove, ora dovevo tornare da Rossana, che stava pazientemente aspettandomi a guardia della moto. A passo spedito ho attraversato il quartiere e sono arrivato alle spalle di Rossana che, con la sigaretta tra le dita, stava scrutando la strada dalla direzione da cui mi aveva visto sparire, poi un po’arrabbiata, ma anche stupita nel vedermi arrivare da quella direzione mi rimprovera dicendo: “Finalmente! Cominciavo a preoccuparmi. Sei sparito, quel tipo che ti accompagnava mi è passato vicino un bel po’ di tempo fa facendomi il segno che andava tutto bene, ma tu non tornavi”. Vedendola irritata non le ho descritto la sistemazione che avevo trovato, ma ho preferito portarla sul posto e, dopo un aver parcheggiato la moto in un angusto spazio del giardinetto, mostrarle la nostra stanza. L’espressione di Rossana avrebbe dovuto bastarmi per cambiare idea, ma siccome non le sembravo scontento, ha subito chiarito la sua opinione: “Mi hai portato in un tugurio e guarda il letto, è piccolo, come faremo a stare in due, farò una notte orribile! Andiamo via di qui”. Eleanor capisce lo sgomento di Rossana e con innocente cortesia chiede: “Are not you happy?”, allora intervengo evitando frasi del tipo: “Questa è una catapecchia, una spelonca inabitabile” ed invece spiego che il problema è il letto troppo piccolo, ma non faccio in tempo a finire la frase, che Eleanor apre il divano e con lenzuola e coperte pulite prepara un altro letto e perfino il tè è pronto e servito. Adesso anche Rossana è vittima della gentilezza di Eleanor e non ha più intenzione di fuggire da quello che è diventato il nostro tugurio. Sistemati i bagagli usciamo nel giardino e incontriamo Hanne, la vicina di casa, che presentandosi dona a Rossana un mazzetto di fiori raccolti dal suo giardino; ormai siamo di casa in questo paesino del nord ovest del Galles. Facciamo quattro passi lungo la via centrale sperando di trovare un bancomat, ma l’unico che troviamo è fuori uso. Un ragazzo di passaggio osserva i nostri tentativi e sconsolato si scusa, quasi fosse colpa sua, dicendo che oggi a Rhuthun niente funziona.
Ci infiliamo nella prima locanda che troviamo aperta e senza rendercene conto entriamo in un ristorante italiano, che di italiano ha ben poco; qualche bottiglia di vino di dubbia provenienza, la pizza al curry e spaghetti scotti con tortino di verdure. Il cameriere indossa un gilet tricolore e ci racconta che la sua famiglia è di origini italiane, ma che lui non sa parlare l’ italiano, però sa cantare O sole mio, poi legge l’elenco di specialità italiane, ma noi ordiniamo due birre e fish and chips. 27 agosto 2017 Dal soffitto di plastica filtra il sole del mattino, la novità è che oggi non piove e fa caldo. Mentre prepariamo i bagagli Eleanor raccoglie delle verdure dall’orto: “Sono per la minestra” e ci da un po’ di menta e salvia, poi ci segue fino in strada per salutarci, meravigliandosi di quanto sia grossa e carica la nostra moto. Il navigatore ha ripreso a funzionare e scrive che da Rhuthun per raggiungere Stonehenge dovremo percorrere cento e novantasei miglia in circa tre ore e mezza. Abbiamo abbandonato il Galles e stiamo viaggiando in Inghilterra, superato Birmingham e anche Worcester ci rendiamo conto di essere in anticipo sulla tabella di marcia e questa autostrada, per quanto veloce e poco trafficata, comincia ad annoiarci, per cui decidiamo di variare il percorso inoltrandoci nel Cotswold. Poche miglia e ci troviamo su uno stretto nastro d’asfalto, che sale e scende tra pascoli e boschi che ricordano la foresta di Sherwood, che però si trova più a nord tra Sheffield e Nottingham. Usciti dal bosco attraversiamo uno stretto ponte in pietra e entriamo nel villaggio di Upper-Slaughter dove i muri sono di pietra e i tetti in paglia, poi Stow-on-the-Wold e infine arriviamo a Bibury il più antico e affascinate villaggio che abbiamo incontrato. Non immaginavamo, che con quella deviazione avremmo attraversato una delle zone più belle dell’Inghilterra dichiarata: “Area of Outstanding Natural Beauty” (Area di eccezionale bellezza naturalistica).
Raggiunta la cittadina di Amesbury il traffico è più intenso e in breve la colonna d’auto si ferma, tutti vanno a visitare le pietre sospese (Stonehenge). Per fortuna con la moto riusciamo a svincolarci dall’ingorgo e a metà strada cominciamo a vedere le grandi pietre in cerchio, ma le indicazioni dicono di proseguire, poi vedo un viottolo di campagna che sembra portare proprio nel posto giusto, ma trascinato dal flusso proseguo come fan tutti. Ci stiamo allontanando dalle antiche pietre, ma i cartelli dicono di proseguire fin quando piuttosto lontano dal sito storico, entriamo nel parcheggio riservato ai visitatori. I posti per le moto sono proprio davanti alla biglietteria e la fila che vediamo è davvero scoraggiante, ma ormai siamo qui e anche se ci vorrà più di un ora per acquistare il biglietto non ci arrendiamo. In coda c’è tutto il mondo dall’oriente all’occidente, dai paesi arabi all’Africa, e mentre il sole batte sulle nostre teste il caldo diventa insopportabile. Rossana, girando qua e la, scopre una biglietteria dove si accettano solo carte di credito europee e per questo non c’è fila, la nostra funziona benissimo. Ora che abbiamo il biglietto cerchiamo di capire dove si oblitera, ma scopriamo che non serve per visitare il sito di Stonehenge, che è gratuito, bensì per il trasporto in autobus. Dal centro turistico, per raggiungere i megaliti, ci saranno almeno cinque chilometri, poi c’è da camminare per visitarli e quindi bisogna tornare indietro, in fin dei conti abbiamo fatto bene a prendere il biglietto, con questo caldo, camminando per ore con addosso gli indumenti motociclistici, avremmo sudato ogni goccia d’acqua e tutta la birra che ci siamo bevuti nei giorni precedenti, per non parlare dello scotch. Adesso siamo qui, a guardare con i nostri occhi e toccare con le mani, uno dei luoghi più misteriosi del mondo risalente a cinquemila anni fa.
La leggenda più antica racconta che il popolo dei giganti fu trasformato in pietra mentre eseguiva una danza magica, o forse fu una strega, che con l’aiuto del diavolo portò fin qui i dolmen dall’Irlanda per costruire una porta, che permettesse alle anime dannate di mettersi in contatto con il mondo dei vivi. Nell’antico manoscritto conservato nella biblioteca di Cambridge sono scritte queste testuali parole: “Nel 483 d.C. mago Merlino trasportò la Danza dei Giganti dall’Inghilterra a Stonehenge: (“)Merlino andò a trovare Uther Pendragon e lo portò nella piana di Salisbury. Il re non poteva credere ai propri occhi: nel luogo in cui si era svolta la battaglia si ergeva un cerchio di pietre magnificamente disposte, al centro del quale si trovava una roccia piatta che rifletteva i raggi del sole nascente. “Non so come tu abbia fatto”, disse Uther a Merlino, “devo ammettere però che non mi aspettavo un simile prodigio!”. L’indovino replicò: “Questo monumento sarà la testimonianza della vittoria tua e di Emrys. Lo dovevi alla memoria di tuo fratello. Ma sappi che si dirà che è la Danza dei Giganti e che gli spiriti vengono in questo luogo, tra queste pietre, ogni notte in attesa della luce che infiammerà il mattino e ridarà vita al mondo”. I teorici degli antichi astronauti, ritengono che Stonehenge sia un riferimento per le astronavi in viaggio nella nostra galassia, una specie di computer in grado di calcolare le rotte galattiche e intravedere, tra le crepe dei monoliti, l’immagine di un viso extraterrestre dai grandi occhi. Stonehenge, però, non è stata sempre così, in origine c’erano solo delle immense pietre sparse e semi interrate. Nei primi anni del ‘900 iniziarono lavori di sistemazione che terminarono negli anni sessanta, tutto ciò è pubblicamente documentato dai progetti e dalle fotografie dell’epoca. Ciò significa, che il cerchio dei megaliti dagli straordinari poteri non è il frutto di un’antica conoscenza risalente a cinquemila anni or sono, bensì la ricostruzione del sito, così come interpretato dagli archeologi del ventesimo secolo.
È comunque certo, ma anche inspiegabile come cinquemila anni fa un popolo primitivo ha trasportato dal Galles fino alla pianura di Avebury queste pietre pesanti cinquanta tonnellate ciascuna. Il nostro autobus è arrivato e si ferma in un piazzale, proprio davanti a quel viottolo di campagna che avevo individuato alcuni chilometri prima e ci sono anche delle moto parcheggiate: “Guarda Rossana! La prossima volta veniamo da qui così evitiamo quell’inutile giro e risparmiamo il biglietto dell’autobus”. Nel prato, di fronte al magico cerchio di megaliti, centinaia di turisti si riposano sdraiati, altri fanno un picnic, dei ragazzi giocano a pallone, tutti gli altri seguono il sentiero fotografando e riprendendo questa meraviglia turistica. Visto così non sembra diverso da altri monumenti, ma poi, avvicinandomi ai megaliti e estraniandomi dal caos turistico, ho provato una strana sensazione d’infinito, un brivido, allora mi sono seduto ad osservare la grande porta frontale di pietra scura, mentre un corvo, appoggiatosi sull’architrave, ricambiava il mio sguardo.
Ritornati al parcheggio ci scoliamo mezzo litro d’acqua a testa, poi entriamo nel negozio di souvenir e per Francesca compriamo la più bella tra le palle di vetro con dentro la neve che scende sui dolmen di Stonehenge. Questa è la seconda palla che le porteremo, la prima l’abbiamo trovata a Loch Ness. Francesca di certo le riporrà accuratamente nella vetrina tra le altre palle raccolte durante i nostri giri motociclistici. Dopo esserci rinfrescati rinfiliamo stivali e giacche da moto, e ci dirigiamo verso Dorset a sud dell’Inghilterra. Raggiunto Weymouth seguiamo la costa cercando un posto dove fermarci, ma è domenica e pare che i tutti i londinesi passino il weekend da queste parti. Dopo una giornata di viaggio non ho certo l’aspetto di un damerino, ma anche questa locanda nei pressi di Poole è sporca e trascurata, inoltre c’è puzza di fritto stantio, ma vista l’ora chiedo comunque se c’è una stanza libera. La vecchia signora, addetta alla reception, mi squadra per bene e non risponde, forse è sorda , penso, così ripeto ad alta voce la stessa domanda, ma lei continua a scrivere su un registro senza darmi retta; poi, senza distogliere lo sguarda dalle sue carte, mi risponde seccamente: ”NO!”, allora mi volto, esco e senza salutare sbatto la porta. Riprendiamo la nostra ricerca e per fortuna non troviamo altri albergatori così maleducati, ma nessuno ha una stanza libera. Proseguiamo la nostra ricerca fino alle sette della sera quando nella zona commerciale della cittadina di Arundel troviamo un motel piuttosto anonimo, ma confortevole. Questo pernottamento mi rattrista un po’ perché è l’immagine scialba della fine del nostro viaggio nel Regno Unito, avrei preferito un vecchio pub allegro e rumoroso. 28 agosto 2017 Questa mattina raggiungeremo Dover per imbarcarci e lasciare definitivamente l’Inghilterra. In un paio d’ore percorriamo centosedici miglia e prima delle undici del mattino stiamo attendendo la partenza del traghetto per Calais.
Nell’attesa, seduto al bar del molo, di fronte alle bianche scogliere di Dover, osservo il via vai di un mondo multirazziale che si muove tra la Gran Bretagna e la Francia. Il vento scompone il burka e il Bisht degli arabi, agli ebrei vola via il Kippah; sventola sulla banchina anche un colorato boubou di una mamma africana e gli europei stanno a guardare stretti nei loro jeans e magliette disegnate. Alle undici e trenta precise inizia l’imbarco e insieme a noi sale un motocilista emiliano tifoso di Valentino Rossi, è arrivato fin qui per vedere il GP di Silverstone e ci racconta della notte in tenda e dell’emozione di quando Valentino è partito in fuga e nessuno riusciva a stragli dietro: “ Valentino è stato sempre in testa, poi ha dovuto cedere lasciando passare lo spagnolo, ma quando Dovizioso ha dato gas al bolide rosso non ce n’era più per nessuno e ha tagliato il traguardo per primo” . Poi ha preso delle birre per festeggiare e: “Due italiani sul podio”, continuava a dire. Poi abbiamo ascoltato la storia del suo viaggio in Alaska e siamo approdati in Francia senza accorgercene. Le nostre due ruote ora sono in suolo francese, devo stare ben attento a come imbocco la strada, perché qui si guida a destra. La nostra prossima meta è Reims, dovremo viaggiare per duecento miglia, anzi trecento ventidue chilometri, ora è meglio pensare in chilometri. Giunti a Lens facciamo sosta per il pranzo, ma sulla strada che stiamo attraversando ci sono solo panini e kebab, poi troviamo un ristorante cinese con un fornito self service di verdure e gamberi. Se non fosse per i continui e costosi pedaggi, sulle autostrade francesi si viaggia veloci e rilassati, così alle sei di sera siamo nel centro di Reims lungo le boulevard Joffre e ci fermiamo a pernottare al vecchio Hotel Porte Mars, che ricorda i racconti del commissario Maigret.
Vecchie camere, con un balcone affacciato sulla strada sopra l’insegna dell’hotel che illumina ad intermittenza la stanza. La moto non si può lasciare sulla strada, è tutto vietato, quindi Carmen, l’addetta ala reception, mi dà la chiave numero sedici di un garage che si trova nel quartiere vicino. Seguo le istruzioni per raggiungere l’autorimessa e mi trovo tra enormi palazzi tutti uguali, un intero quartiere di tipo popolare in stile anni sessanta. Comincio a vagare tra i garage tutti numerati a mano con un pennarello blu. La mia chiave non apre il numero sedici, però non sono sicuro che questo sia il mio numero sedici e mentre faccio tentativi degni di uno scassinatore, mi accorgo che i condomini mi guardano sospettosi, allora con aria ingenua e cortese mostro la chiave dell’hotel e chiedo dove devo andare, un tipo corpulento in canottiera, appoggiato al balcone mi grida “vous devez aller à l'autre bâtiment là-bas » (devi Andare nell’altro palazzo in fondo). L’Hotel è a due passi dal centro, così andiamo a piedi fino alla Brasserie du Boulingrin per cenare, il cameriere ci fa subito accomodare, ma il titolare ci chiede di sloggiare dicendo che tutti i tavoli sono prenotati, quando però vede che stiamo per entrare nel ristorante vicino ci rincorre e scusandosi ci dice che ora un tavolo è libero.
Il menu è tipicamente francese, così ordiniamo escargot e un bicchiere di bordeaux del 2013. I prezzi in Francia sono piuttosto variabili, infatti la pubblicità del Boulingrin scrive che il miglior menù costa ventisei euro, ma noi ne paghiamo trentasei a testa, anche l’Hotel pubblicizza le camere per cinquantotto euro, ma noi ne paghiamo settantaquattro. 29 agosto 2017 Reims – Oberaudorf km 803 Le borse della moto sono già nell’atrio dell’hotel, adesso devo fare una passeggiata per raggiungere la moto. Vado di buon passo e questa volta niente sbagli, in cinque minuti sono davanti al garage, ma quando esco mi trovo in un labirinto di sensi unici che mi porta fino in centro e da qui riprendo il boulevard Joffre fino all’ Hotel Porte Mars. Oggi, per arrivare a casa dovremmo percorrere poco più di mille duecento chilometri, che corrispondono a circa dodici ore di noiosa autostrada, per cui non ci poniamo una meta e decidiamo di andare avanti fin quando non saremo stufi. Viaggiamo spediti in Francia e in tre ore entriamo in Germania, ma appena superata Karlsruhe iniziano i lavori autostradali e per più di duecento chilometri ricomincia lo snervante slalom tra le auto ferme in coda. Gli automobilisti tedeschi sembrano tranquilli, qualcuno scende stiracchiandosi dall’auto, altri leggono un libro, c’è anche chi approfitta per fare un pisolino, pochi danno l’idea di essere spazientiti, non riesco a capire se si tratta della quiete prima della tempesta oppure sono davvero rassegnati a passare la loro vita su questa autostrada. Sono le cinque di sera quando arriviamo a Monaco, abbiamo viaggiato per cinque ore per fare poco più di trecento chilometri e probabilmente gli automobilisti sono ancora pazientemente in coda dalle parti di Stoccarda. Facciamo una sosta per fare il pieno di benzina, poi mi siedo all’ombra per riposare e bere una bottiglia d’acqua. Ammettiamolo, siamo stanchi, così decidiamo di arrivare fino a Rosenheim e poi abbandonare l’autostrada per andare alla ricerca di una locanda tra le Alpi Bavaresi.
Alle sei di sera siamo davanti a una tipica locanda tedesca. Appena tolgo il casco sento fisarmoniche e ottoni suonare, poi una voce che canta: “Rosamunde”. Attratto dai festeggiamenti, anche se pessimista sull’alloggio per la notte, mi trovo nel mezzo di una compagnia di anziani tedeschi che i brindano e cantano invitandomi a far parte della combriccola , così senza ancora saper dove mi trovo alzo un boccale di birra augurando: “Prost!”. La cameriera si avvicina e chiede se desidero un tavolo, gli rispondo di sì, ma che prima vorrei sapere se ci sono stanze libere e lei, senza tante cerimonie, mi conduce alla reception, poi mi consegna le chiavi dicendomi: “Stanza numero dodici primo piano”. Dopo tanto sudore lasciato lungo l’autostrada, trovarmi tra i boschi nei pressi di Oberaudorf in una stanza pulita che profuma di legno, per poi scendere al ristorante e scolarmi un boccale di birra senza respiro, è una soddisfazione impagabile.
30 agosto 2017 È mattino e il sole splende sulle montagne bavaresi. La pioggia e il freddo delle coste del nord della Scozia sono ormai lontani, mentre sistemo la macchina fotografica rivedo con nostalgia le immagini delle scogliere e delle praterie colorate d’erica, rendendomi conto che ormai fanno parte dei ricordi. In questa limpida giornata respiro l’aria che profuma di bosco, stiamo per rientrare a casa e non voglio terminare il nostro viaggio in autostrada, così gironzoliamo tra Germania e Austria, fin quando sostiamo in uno spaccio di trote affumicate per uno spuntino. Seduti accanto a un torrente apriamo la carta geografica per fare il punto di rotta e scopriamo di trovarci al Nationalpark Berchtesgaden, da qui, tirando dritti verso sud, abbiamo circa trecento chilometri per arrivare a casa, anziché i trecentocinquanta riprendendo l’autostrada, però dovremmo attraversare molti passi tra i quali i trentasei tornanti del Großglockner che portano a duemila e cinquecento metri. “Pensiamoci bene a sorbirci trecento chilometri di saliscendi e continui tornanti, abbiamo alle spalle ottomila chilometri”, dice Rossana mentre sistemo i bagagli, ma ciò che mi convince a rinunciare a un lungo percorso di montagna è la gomma posteriore, che ormai è completamente liscia e in più ha assunto una strana forma quadrata con uno spigolo vivo sul fianco, che mi rende più faticoso scendere in piega sulle curve. Peccato rinunciare ai panorami alpini di Zeel am see, del Großglockner e del passo di Timau nelle nostre Alpi Carniche, ma ormai è deciso e ci dirigiamo verso l’autostrada con una guida leggera e rilassata e tra meno di quattro ore saremo a casa. Il nostro viaggio è finto, ciò che resta è un trasferimento di routine. “Diciotto giorni è durato il nostro viaggio, non ho attraversato Abbey Road e neppure cercato il barbiere di Penny lane, pazienza, a Londra ci posso andare con un volo low cost”.
Così pensavo scaricando i bagagli e riordinando i souvenir del viaggio, quando mi è ritornato in mente, che tra i membri della combriccola c’era Dado, figlio sedicenne di ricca famiglia e dall’animo contestatore, che a luglio del sessantotto partì per Londra con i capelli corti e il doppio petto blu e ritornò a ottobre capellone, con una giacca rossa guarnita da bottoni e stringhe d’oro. Aveva anche portato con sé il trentatré giri del musical Hair, dove si raccontava di trasgressione, sesso, droga e libertà. Dado era stato al Shaftesbury theatre di Londra, aveva visto il musical dal vivo e aveva conosciuto i protagonisti, tutto ciò era innegabile perché il suo long playing era autografato: “ To Dado with love -Elaine Paige”. In quegli anni s’imponeva il nuovo pensiero giovanile e l’Inghilterra era un faro guida per le nuove generazioni che volevano cambiare il mondo con la musica, con i capelli lunghi e vestiti a fiori. Cinquant’anni dopo sono partito per rivivere il mito di allora, ma ho scoperto nuove emozioni chiuse tra castelli e antichi ruderi, ho parlato con gente semplice e cortese, ho visto montagne e scogliere solitarie dove fermarsi ad immaginare un mondo nuovo. Questa sensazione di libertà, ormai lontana dall’odierno quotidiano, è ciò che in fondo cercavamo anche allora e che oggi non ho trovato a Carnaby Street, ma lungo la costa scozzese tra John O’Groats e Durness e percorrendo le solitarie strade che attraversano le Highlands.
FINE
Andrea & Rossana