Andrea & Rossana
Ad EST
Il tour dei Balcani
Agosto 2014
1. Parte prima- Sarajevo
Manca poco all’inizio dei nostri quindici giorni da moto-viaggiatori, ho conservato nel cassetto del salotto il road-book per il viaggio in Scozia, ma ancora le idee non sono chiare. Il meteo non promette nulla di buono, piove sulle Highlands, piove sulle Orcadi, piove su Isle of Skye; pioverà su di noi, sulla nostra moto e sulla nostra tenda, allora è meglio andare a sud-est verso il sole e neppure una nuvola.
Traccio sulla carta geografica una linea con la matita che va da casa verso Sarajevo in Bosnia-Erzegovina, poi varco il confine del Montenegro fino alle coste dell’Albania attraversando Durazzo e Vallona, per continuare in Grecia raggiungendo il Peloponneso e fermandomi nell’isola di Elafonisos; la matita ora fa ritorno passando per Kalmpaka , il lago di Ohrid in Albania e Montenegro verso Kotor, per poi risalire le coste della Croazia fermandosi all’isola di Hvar e alla fine un unico lungo segno che riporta a casa.
Siamo d’accordo, domani si parte.
La mattina è grigia e minaccia pioggia. La moto è caricata: “la borsa da serbatoio, le valige nere ai lati, il bauletto sul portapacchi e, sopra, la sacca con l’attrezzatura da campeggio”, ora dobbiamo montare in sella, prima il vecchio cavaliere e poi con un grande slancio Rossana; un giro di chiave, la moto sorride e i viaggiatori seguono il segno di matita tracciato sulla carta geografica.
Rifornimento di benzina e colazione sul confine Sloveno, ripartiamo indossando le tute da pioggia che ci ripareranno per trecento chilometri, fin dopo Zagabria, dove il sole asciugherà le nostre giacche messe a stendere sulla moto e noi seduti sull’erba a goderci il tepore.
Mancano ancora quattrocento chilometri a Sarajevo , è tempo di ripartire.
A Slavonki Brod attraversiamo agevolmente il confine tra Croazia e Bosnia-Erzegovina, siamo in moto e i doganieri indicano di superare la coda lasciandoci passare senza troppe formalità.
Passato il confine l’autostrada lascia il posto ad una statale rappezzata alla meglio, che attraversa piccoli borghi contadini animati da mucche al pascolo e da carri trainati da cavalli che costringono i pesanti camion a far stridere i freni, mentre le auto si lanciano in assurdi e rischiosi sorpassi. Il tramonto è ormai terminato e con il buio l’andatura si fa più lenta e faticosa. Abbiamo appena passato Visoko dove si dice che le colline Visočica, siano un complesso di piramidi costruite dall’uomo 12.000 anni fa dove si nascondono segreti extraterrestri , ma è una bufala e non vale la pena soffermarsi. Manca poco a Sarajevo, però decidiamo di fermarci nel primo posto che ci capita, perché preferiamo affrontare il centro cittadino di giorno e con più tempo per poter meglio scegliere dove alloggiare.
Non c’è l’ insegna luminosa con la scritta Hotel, ma s’intuisce che quel fabbricato solitario è li per offrire ospitalità ai viandanti.
Alla reception nessuno ci accoglie, apriamo qualche porta, proviamo a chiamare fin quando arriva una giovane donna troppo magra, dal volto provato e dai folti capelli nero corvino. Non sa l’Italiano, provo a parlagli in inglese, ma continuiamo a non capirci, allora lei abbozza un sorriso e chiama il marito. Finalmente riusciamo a chiedere una camera per passare la notte. Siamo i soli clienti e la camera c’è, il proprietario fa strada passando per una scaletta esterna che conduce in un’ampia mansarda comunicante con un’altra stanza da letto con bagno in comune. Le stanze sembrano occupate, c’è un vestito appoggiato sul letto, dei sandali in bagno e sulla sedia un paio di reggiseni, il locandiere brontola nella sua lingua cose che, per fortuna, non capiamo, raccoglie gli indumenti dimenticando i sandali e dice che è tutto a nostra disposizione per quindici euro a notte compresa prima collazione. La stanza è arredata con vecchi mobili e pesanti tende, il letto è buono, ma la pulizia lascia a desiderare, l’impianto elettrico fa paura e le porte non si chiudono, ma ci fidiamo e poi non è il caso di continuare a cercare. Parcheggiata la moto in un luogo sicuro scarico i bagagli entro in camera e mi butto nel letto, vorrei farmi una doccia, ma questa sta sopra la tazza del cesso e con un rumore, che assomiglia al rantolo di un dinosauro, sputa un acqua giallastra che non invoglia, meglio rinunciare e andare subito a cena.
Seduti a tavola in terrazza, ci servono subito del vino bianco e l’acqua, ma poi i proprietari della locanda si siedono a tavola e cenano senza più preoccuparsi di noi. Finito il litro di vino ed anche l’acqua mi avvicino al loro tavolo e chiedo se mi invitano a cena, il locandiere si alza e premuroso mi fa vedere che nel frigorifero ha dell’ottima carne e delle verdure da cucinare alla griglia. Perfetto, in pochi minuti arriva il gran piatto ed ancora vino e acqua.
Per quanto il posto sia perlomeno strano, dormiamo bene e la mattina la collazione è pronta al nostro tavolo. La magra locandiera ci chiede se vogliamo il caffè, le dico di sì e guardo il suo volto scarno e ricordo che in questi luoghi, forse proprio su questi prati, tra il 1992 e 1995 marciavano truppe animate dall’odio razziale, lei a quel tempo avrà avuto una decina d’anni e chissà che cosa avrà visto e cosa sarà rimasto impresso nella sua mente.
Rossana chiede un bicchier d’acqua naturale, poi apre le bustine di Sali minerali e vitamine per preparare la pozione rinforzante da viaggio. La locandiera segue con attenzione l’operazione e visto il suo interesse le spieghiamo di cosa si tratta, lei capisce e prende una penna per annotare il nome del prodotto, allora Rossana prende un pacchetto di bustine dalla borsa e glielo regala, lei le prende, le guarda e le mette in tasca mostrando la sua gratitudine.
Se il dono di queste medicine cancellerà i ricordi del passato, allora tornerà a sperare.
Borse, bauletto e tenda caricati, Sarajevo arriviamo!
Sarajevo
Il viale che porta al centro storico di Sarajevo è costeggiato da palazzi popolari crivellati dalle pallottole. Passano tram colorati, auto nuove tirate a lucido e la gente si affretta ai semafori, una città moderna proiettata al futuro, ma lo sguardo si ferma ad osservare quei fori sulle facciate delle case e in quel momento si fa silenzio mentre mi ritorna in mente quel ragazzo di Sarajevo che diceva al giornalista: ”Se puoi vedere le colline, qualcuno lassù può vedere te”.
Siamo in centro, all’inizio del quartiere ottomano, mi piace guardare la moto stracarica parcheggiata tra negozi che vendono Kebab, tappeti e chincaglieria luccicante, ed ascoltare il Muezzin che chiama alla preghiera, sembra di stare a Istanbul. Mentre m'informo all’ufficio turistico per una visita al tunnel della salveza, un ragazzo mi avvicina offrendomi una stanza nel suo ostello, gli dico che ho prenotato in Hotel, ma lui insiste, vuole che vada a vedere, è così entusiasta e gentile che decido di seguirlo.
"Sono solo due passi, qui dietro l’angolo”, mi dice , e poi apre una porta a vetri con sopra scritto Hostel, saliamo una ripida scala che ci porta alla nostra camera. La finestra si affaccia sulla via pedonale del centro musulmano, da qui si vedono i tetti della moschea e un bar dove si sorseggia il caffè turco e si fuma la shisha con il narghilè.
“Va bene, mi piace, affare fatto”, ci accordiamo per cinquanta euro a notte compresa un’abbondante collazione, mi accompagna alla moto e vuole portare tutti i bagagli, poi mi fa strada correndo verso un garage dove parcheggiare.
Abbiamo il tempo per una doccia e per indossare vestiti da turisti, che è già ora di salire sul bus che ci porterà al tunnel.
La nostra guida parla troppo bene l’inglese e fatico a seguire le spiegazioni. Siamo i soli Italiani, gli altri vengono dall’Inghilterra , la Nuova Zelanda, il Canada e dagli USA, loro capiscono bene, ora ridono, ma poi diventano seri guardando dal finestrino i palazzi crivellati dalle pallottole.
Il tunnel è un luogo clandestino, tutti sanno dov’è, ma non ci sono indicazioni stradali e non compare sulle mappe, per la gente di Sarajevo è il simbolo della forza di vivere e della salvezza.
La nostra guida mostra una mappa dove si vedono le postazioni dell’ esercito Serbo situate sulle colline per l’ assediò di Sarajevo durato dal 1993 al 1995. Un assedio medievale tenuto da 600 pezzi d’artiglieria e numerosi cecchini, che aveva costretto la città senza, luce, acqua, viveri e medicinali, se la gente non moriva per le granate del generale Ratko Mladić o per il tiro di un cecchino, moriva di fame o di freddo. L’aeroporto, controllato dall’ONU, interrompeva l’anello dell’assedio, qualcuno provava a fuggire dalla città di notte attraversando di corsa la buia pista dell’aeroporto, ma quando si accedevano i fari dell’ONU i cecchini dalle colline facevano il tiro al bersaglio. Alle spalle dell’aeroporto, nel sobborgo di Hrasnica, dietro la casa della famiglia Kolar iniziano i 760 metri del tunnel, di cui oggi si possono percorre solo i primi 25 metri, da qui si poteva entrare e uscire dalla città, portare viveri e sperare di sopravvivere. Mentre percorrevo quei venticinque metri pensavo a cosa facevo in quegli anni, mentre qui qualcuno appoggiava i suoi passi nella speranza di vivere.
Al ritorno il bus era più silenzioso, aspettavamo di ritornare al mercato e riempirci gli occhi di colori e il naso di profumi, ma prima era necessaria una visita all’esposizione fotografica: “Srebrenica exhibition”.
Undici luglio 1995, le truppe di Ratko Mladić con l’appoggio di Željko Ražnatović detto Arkan la tigre, a Srebrenica, nonostante la presenza Olandese dell’ONU, massacrano oltre 8.000 uomini e ragazzi di religione musulmana. Immagini in bianco e nero di un genocidio, vittime in fosse comuni, bare e disperazione. Nel filmato una studentessa mostra i locali devastati dell’università, dove si continuano le lezioni tra le macerie, poi saluta sorridente, attraversa la strada correndo a zig-zag e si nasconde mentre si sentono i colpi sparati dal cecchino, ce l’ha fatta e da lontano saluta con la mano.
Adesso basta, come la gente di Sarajevo, non ne voglio più parlare, voglio lasciami alle spalle gli orrori della guerra e godermi la città multirazziale dove le campane si accordano con il canto del muezzin. Rientriamo all’ostello, scambiamo due chiacchiere con il proprietario e vedo una fotografia, gli chiedo chi fosse e lui mi risponde. “ Mio padre, è morto nel 1994”, non voglio continuare sull’argomento, allora stacco la chitarra dal muro e suono qualche nota, poi gli chiedo se sa suonare, lo sa fare ed inoltre canta con una bella voce.
Scendiamo in strada, attraversiamo il caos del mercato musulmano, dove si serve il bukhari e si beve yogurt perché l’alcol è vietato; poi, due soli passi e ci troviamo tra palazzi asburgici, birra , wurstel, bistecche e patate fritte. Entriamo nel ristorante della fabbrica di birra: “Sarajevska Pivara”, gli arredi scuri e massicci sono illuminati da lampadari di Boemia e sui tavoli troneggiano i boccali di birra con la schiuma che trabocca, un filetto di manzo al sangue, patatine fritte e una pinta di birra scura, poi torniamo nel quartiere musulmano e seduti sul sofà aspettiamo che i fondi di caffè si depositino per poi sorseggiarlo con calma.
La mattina dopo ripercorriamo il centro, visitiamo moschee e chiese, per meravigliarci ancora, che con soli pochi passi sia possibile, dall’impero ottomano, giungere quello asburgico. Seguendo il corso del Miljacka attraversiamo il Ponte Latino dove, nel 1914, l’assassinio di Francesco Ferdinando D’Asburgo diede inizio alla prima guerra mondiale. Continuando il nostro percorso lungo il fiume arriviamo alla Sarajevo moderna e anche da lontano si vedono i palazzi del governo e l’ Holiday inn dove dimoravano i giornalisti stranieri durante la guerra, è impossibile non ricordali in fiamme come mostravano i telegiornali dell’epoca.
Passeggiando si fa sera e con il buio si accendono le luci, fermiamo un taxi perché ci porti sulle colline per ammirare Sarajevo di notte, poi ritorniamo nel quartiere musulmano per gustare nella miglior pasticceria i Baklava e bere il çay.
Dobbiamo partire presto questa mattina, ritiro la moto dal garage e attraverso la zona pedonale, tanto non c’è nessuno a quest’ora e i negozi sono chiusi, davanti alla porta dell’ostello i bagagli sono già pronti per essere caricati, il proprietario è lì sorridente, fermo in piedi per salutarci e a mani giunte ci ringrazia per aver onorato con la nostra presenza il suo umile ostello.
Usciamo da Sarajevo è ho già nostalgia.
2. Parte seconda – Attraversando il Montenegro e l’Albania
I tornanti si susseguono tra i boschi e gli altopiani della Bosnia, ma quando la strada si fa più stretta e a tratti sterrata, ci troviamo nel mezzo di una mandria di bovini e il toro non gradisce la presenza di questo strano animale a due teste, che borbotta, sbuffa e dal naso emette luce, sicché decide di caricare. Allora la mandriana si mette le mani nei capelli e noi restiamo immobili piantati sulla moto, non possiamo fare altro, perché la strada è bloccata da manzi e manzette, fuggire è impossibile. Le corna del toro si fermano a un centimetro dalle nostre gambe. Era tutta scena, si volta e se ne va.
Il confine tra Bosnia e Montenegro è a ridosso di uno stretto ponte fatto di legno e ferro in bilico sulla gola scavata dal fiume Drina, che da qui scende verso nord-est tracciando il confine tra Serbia e Bosnia, per poi affluire nella Sava a un centinaio di chilometri prima di Belgrado.
Non è facile scegliere il percorso, perché qui, nel massiccio del Durmitor, i panorami sono ovunque spettacolari e incontaminati. Avremmo potuto seguire le profonde gole del Tara, inoltrandoci nella strada che percorre il “canyon” più lungo d’Europa, ben ottantadue chilometri di spettacolo prodotto dal lento e inesorabile scavare delle rapide e delle cascate dell’omonimo fiume. Abbiamo invece deciso di percorrere le gole del fiume Piva per raggiungere il grande lago artificiale Pivsko Jezero proseguendo lungo una strada fatta di strette curve, gallerie scavate nella roccia e strapiombi profondi fino a milleduecento metri. Potremmo fermarci qui e goderci una vacanza rilassante, facendo delle escursioni, o provare l’emozione del rafting scendendo le rapide del fiume, ma la curiosità di varcare un confine, che fino al 1992 era impenetrabile, è troppo forte.
La situazione sul confine Albanese è piuttosto caotica e fa un caldo insopportabile, abbiamo addosso le giacche pesanti e dalle maniche scendono gocce di sudore, allora ci spogliamo togliendo ciò che la decenza permette e riponendo tutto tra gli elastici che trattengono l’attrezzatura da camping. La moto ha il motore bollente ed è sommersa dal disordinato carico. Restare in coda è una tortura, vorrei sorpassarla, ma è impossibile, le auto s’infilano ovunque e i camion restringono lo spazio. Spengo il motore, ma lascio che le ventole continuino a raffreddare, poi riaccendo e avanzo di pochi metri, ripeto la manovra più volte, ma è un terribile errore e la batteria non ce la fa più. Resto lì piantato, mentre, chi sta dietro suona il clacson e fa cenno di andare avanti. Data l’incresciosa circostanza, scendo dalla moto in quell’inferno e allargo le braccia facendo capire che la moto non va, mi aspettavo che nella loro lingua mi mandassero a quel paese, invece parlano tutti l’italiano.
Pare che nessuno abbia fretta e gentilmente decidono di aiutarmi, chi spinge la moto e chi mi offre un bicchiere d’acqua; poi arriva una vecchia Mercedes, il proprietario apre il cofano e con due grossi cavi attacca la mia piccola batteria alla sua gigantesca batteria, sfioro lo start con apprensione e il motore va in moto. Tutto a posto, i doganieri mi fanno cenno di passare, Rossana ha già in mano l’assicurazione per l’Albania e l’ha pagata meno di quanto avevo letto sulla guida turistica.
Le montagne del Montenegro hanno lasciato posto a solitarie colline pietrose troncate alla sommità, l’erba è gialla e dura e la terra polverosa. La strada corre dritta verso la nostra meta a Shkodër sul lago di Scutari.
Raggiungiamo la città di Koplik e già qui si capisce che i piani urbanistici in Albania non esistono. Palazzi di varia foggia e colore sono sparsi a casaccio, mentre altri ancora in costruzione, ma ormai abbandonati, sono diventati dimora dei senza tetto. Le vecchie case non esistono più, solo qualche baracca è rimasta in piedi. La strada principale è percorsa da ogni cosa munita di ruote, che si tratti di carri trainati da asini o motorini fa lo stesso, basta che siano in grado di superare le profonde e insidiose buche della strada. Entriamo in città e l’asfalto lascia il posto allo sterrato impolverando ogni cosa, qualcuno prova a bagnare la strada, altrove non serve innaffiare perché l’acqua scorre libera provenendo da chissà dove. Destreggiarsi qui alla guida è impegnativo ci vuole intuizione, perché la regola è l’improvvisazione. Agli incroci si procede lentamente cercando d’intrufolarsi nella coda d’auto fin quando tutto si blocca; allora che fare? Si può suonare il clacson sperando che la situazione migliori.
Anche se la moto va bene non ho dimenticato la batteria, cosicché decido di fermarmi da un elettrauto. La sede dell’officina è una costruzione quadrata con il tetto piatto e a vederla non dà molta fiducia, ma appena entrato devo cambiare idea, perché le attrezzature sono moderne e ben tenute e il magazzino ha tutto ciò che serve. L’elettrauto fa il test confermandomi che va tutto bene. Gli chiedo se ha una batteria per la Varadero, consulta il listino e dal magazzino mi porta una Varta da otto ampere, è solo un po’ più piccola della mia e costa venti euro. Visto il prezzo, anche se questa non mi servirà decido di acquistarla. Chiacchierando con l’elettrauto mi complimento per il suo perfetto italiano, e m’informo su quanto tempo è stato in Italia, mi spiega che in Italia è stato poco più di una settimana e che la lingua l’ha imparata da bambino seguendo alla televisione i programmi di Mediaset. E’ incredibile pensare che negli anni ‘80 Canale Cinque e Italia Uno destabilizzavano la rigida dittatura del dittatore comunista Enver Hoxha trasmettendo Premiatissima e Drive in.
Proseguiamo verso il lago di Scutari, la strada a ogni centro abitato riserva nuove sorprese, come le mucche che pascolano nei bidoni della spazzatura, ormai ai greggi di pecore che attraversano la strada non facciamo più caso, invece ci colpisce una moschea dipinta in verde acido e posta accanto a un palazzo color arancione, neppure abbassando la visiera scura del casco è possibile salvarsi da un tale stridore di colori.
Shkodër si presenta come le altre città Albanesi, traffico compreso, è una delle città più ricche di testimonianze storiche, ma, a mio vedere, queste si perdono in quel grande cantiere che è diventata l’Albania.
Chiediamo informazione su dove trovare alloggio per la notte, anche qui parlano italiano e ci dicono di proseguire lungo la strada che costeggia il lago, così usciamo dalla città e dopo pochi chilometri d’asfalto ci troviamo su uno sterrato piuttosto disconnesso, sembra impossibile che porti da qualche parte e invece raggiungiamo - in un piccolo paesino, con tanto di spiaggia, - ombrelloni, sdraio e ristorante sul lago.
Siamo gli unici turisti dell’unico Hotel e probabilmente anche i primi, perché qui tutto odora di nuovo e nella spalliera del letto sono ancora appiccicati alcuni pezzi dell’imballaggio. Il sole tramonta e noi possiamo goderci lo spettacolo seduti a tavola sulla riva del lago davanti a due teglie di pesce in umido talmente bollenti da non poterle toccare.
La mattina, mentre il Muezzin chiama alla preghiera dal minareto, noi, proseguiamo verso la costa e uscendo dal paese incontriamo delle vecchie case. Sono solo dei piccoli cubi colorati fatti di mattoni e calce, dove, avvolti dalla polvere della strada, gli anziani stanno seduti sull’uscio riparando le reti da pesca, mentre i bambini giocano scalzi e salutano chi passa e se ne va.
Seguendo verso Durazzo la strada non cambia, asfalto e sterrato si alternano. All’entrata della città restiamo bloccati nel traffico su un ponte stretto fatto di rotaie, travi in cemento e legno, il tutto talmente sconnesso da rendermi difficile tenere in piedi la moto. Sono troppo concentrato per imprecare mentre dei vecchi camion con i loro maleodoranti gas di scarico ci asfissiano. Finalmente liberi! Davanti a noi si apre una moderna autostrada che, troppo breve per essere utile, immette improvvisamente su una strada piene di buche e rappezzi. Poi i cartelli indicano che l’autostrada ricomincia, ma questa è solo un larghissimo nastro d’asfalto senza barriere e segnaletica dove ognuno fa ciò che vuole; un potente SUV sfreccia tra i carretti che avanzano senza fretta, mentre alcuni ragazzi improvvisano un torneo di calcio e poi l’asfalto finisce.
Seguendo la costa arriviamo a Valona, è il punto più vicino all’Italia, con poco più di quarantacinque miglia marine è possibile attraversare il canale d’Otranto e sbarcare nell’omonima città. La strada segue una grande spiaggia attrezzata, mentre dall’altra parte dei moderni palazzi dominano il paesaggio. Qui, si dice che la movida sia degna di Ibiza, i Dj sparano musica House e Techno a getto continuo, quindi non ci fermiamo.
Da Valona a Orikum la costa si fa sempre più bella e allora facciamo sosta in una trattoria sul mare. Pesce fresco e vino bianco, il proprietario sa fare bene il suo mestiere e, naturalmente, parla italiano raccontandoci che d’inverno lavora a Torino in un albergo quattro stelle e d’estate gestisce la sua trattoria.
La strada verso Saranda s’inerpica tra le montagne e poi scende verso la costa con curve e tornanti che sembrano fatti apposta per le traiettorie della moto; è bellissimo guidare su questa strada correndo verso il mare, ma è anche bello fermarsi a guardare il sole che tramonta tra le baie selvagge e irraggiungibili.
Giocando con le curve della strada raggiungiamo un’auto tedesca e mentre il suo lui guida, lei a braccia aperte e capelli al vento sta in piedi sul sedile sporgendosi dal tetto panoramico, perché è impossibile restare chiusi nell’abitacolo dell’auto mentre sembra di librarsi sul mare. Viaggiando in moto posso capire, nello stesso modo con cui sento il vento sulla mia faccia, i versi di Charles Baudelaire:
"Ma i veri viaggiatori partono per partire e basta: cuori lievi, simili a palloncini che solo il caso muove eternamente, dicono sempre “Andiamo”, e non sanno perché. I loro desideri hanno le forme delle nuvole."
Raggiungiamo Saranda che è ormai buio e seguiamo una strada che invece di condurre al centro della città ci porta in un desolante quartiere popolare. A un incrocio cerchiamo di orientarci, quando si ferma un furgone e il conducente, in perfetto italiano, chiede se abbiamo bisogno d’aiuto, naturalmente diciamo: “ Sì, stiamo cercando dove dormire”, sorridente e premuroso risponde: “Qui c’è molto turismo e siamo in alta stagione, ma non preoccupatevi, ora ci penso io”, telefona e ad alta voce, dice qualcosa nella sua lingua, ma io riesco soltanto a capire: “Turisti Italiani”, poi sodisfatto: “Tutto a posto, vi accompagno, seguitemi” e noi lo seguiamo tra i sali e scendi di strette e trafficate strade cittadine, infrangendo tutte le regole del codice della strada. Così arriviamo in un altro quartiere di tipo popolare, dove, all’entrata di una palazzina con la scritta Hotel dipinta di blu, ci aspetta un signore anziano che porta le nostre pesanti valige e una signora ci consegna le chiavi e apre il garage dove nascondere la moto. Scopriamo di aver affittato un appartamento dove tutto è nuovo e funzionale. La nostra guida e la proprietaria si mettono a discutere e nuovamente riesco solo a capire: “Turisti Italiani”. Dopo un lungo silenzio la guida dice: “Il prezzo è di quaranta euro a notte” , io non so che dire, per i miei parametri di turista Italiano non è molto, ma ho capito che ha sparato alto, allora assumo un’ espressione di circostanza e sostengo che il prezzo è molto alto, poi scoprirò che avevo ragione.
Siamo al terzo piano e dalla terrazza non si vede il mare, ma solo un triste quartiere trafficato con numerosi negozi di frutta e verdura ancora aperti. Sotto di noi c’è un deposito di ferraglia, dove il guardiano seduto su un seggiolino, troppo piccolo per le sue natiche, mangia un panino e beve birra in barattolo. Il cielo è illuminato da strisce di luce provenienti dal faro della discoteca che indica ai villeggianti la via dei piaceri della notte.
La mattina le nostre valige stavano ammucchiate sulla strada in attesa che l’anziano tuttofare uscisse dalla sua camera nel sottoscala per aprire il garage, poi tra strette di mano e raccomandazioni in italiano del tipo: “Moto, brum brum, potente, piano”, blocca il traffico e saluta con la mano finche ci vede sparire.
La nostra meta è raggiungere il confine greco passando per il parco di Butrint. L’ultima città che incontriamo è Ksamil, poi la strada prosegue tra paludi e boscaglie e s’interrompe di fronte a uno stretto braccio di mare nei pressi della fortezza di Ali Pasha. Per proseguire dobbiamo imbarcarci su una piccola zattera trainata con dei cavi da una carrucola. Il posto è selvaggio e circondato da acque salmastre dal colore verde intenso. Sotto un sole battente attendiamo di salire a bordo insieme con un vecchio furgone e un motorino attrezzato con ceste in vimini. Si vede che siamo turisti, così una zingarella mi avvicina proprio al momento dell’imbarco per vendermi i suoi braccialetti di perline colorate: “Italiano, solo due euro, porta fortuna”, i due euro li avevo in una mano, mentre con l’altra tenevo ferma la moto che aveva la ruota anteriore imbarcata e il resto in terra ferma.
Sull’altra sponda c’è un muro con sopra dipinti i colori della bandiera albanese: ”Un’ aquila bifronte in campo rosso”, tutt’intorno corsi d’acqua che s’intrecciano, cavalli e altri animali allo stato brado, mentre in cielo volteggiano due aquile dalla testa bianca.
La strada s’inoltra nel parco di Butrint divenendo ogni chilometro più stretta a causa delle canne che dal fossato invadono la carreggiata. Ora la via diviene un sentiero fatto di pietre e buche, poi guadiamo anche un piccolo torrente. Sembra impossibile arrivare al confine con la Grecia seguendo questo percorso, forse ci siamo persi. Fermo la moto per consultare la carta geografica e proprio in quel momento passa una persona del luogo cui poter chiedere ad alta voce: “Per la Grecia” , mi fa cenno con la mano di andare sempre dritto; così continuo il viaggio su questa strada finché arrivo a una ripida salita che conduce a un piccolo villaggio. La gente del posto saluta e fa segno di proseguire, forse non siamo i primi turisti che passano di qui con l’espressione spaesata. Passate le poche case ci troviamo su un’ampia strada asfaltata che conduce in pochi minuti al confine con la Grecia.
Ora dovrei proseguire narrando del viaggio in Grecia, ma per non dividere il ricordo a metà credo sia meglio raccontare quella parte del viaggio di ritorno che ci ha riportato in Albania.
Con la pelle bruciata dal sole della Grecia ripassiamo il confine verso l’interno dell’Albania, la nostra meta è il lago di Ohrid e ci fermiamo nella città di Pogradec. Qui non c’è traccia di turismo straniero. La strada che segue il lago è bella e ben tenuta, mentre nei dintorni fa da padrona l’edilizia di stile bolscevico. Ritornando sul lungo lago facciamo sosta all’hotel Enkelana, un quattro stelle che si affaccia sulla spiaggia e, per avere un’idea dei costi, chiedo una camera matrimoniale per una notte, il portiere ne trova una libera con bagno, aria condizionata e terrazzo con vista sul lago, il tutto per ventitre euro a notte compresa colazione, avevo ragione di protestare a Saranda per il prezzo.
L’hotel è un labirinto di corridoi, che il facchino, carico dei nostri bagagli, ci fa percorre a passo veloce. Il programma prevede un bagno nel lago seguito dall’aperitivo. I camerieri del bar della spiaggia non parlano italiano, cerco di fargli capire che vorremmo bere un aperitivo ma pare che da queste parti non sia d’uso, o forse non ci capiamo, così arrivano due bicchieri colmi di grappa tipica del luogo, troppo forte anche per me che avevo fatto il bagno nelle gelide acque del lago.
La sera la vita notturna si anima presto, sono molti i ragazzi albanesi abbigliati a festa, che, con passo veloce, sembrano andare a un appuntamento inderogabile, mentre noi lentamente cerchiamo una trattoria che non si trova fin quando ci imbattiamo in un bar con grigliata di carne all’aperto. Restiamo fermi in piedi, incerti sul da farsi, quando un tale, parlando un perfetto Italiano si presenta con il nome di Gjon e ci invita a sederci al tavolo insieme al suo amico. L’invito rompe gli indugi e con piacere seguiamo i consigli sui vini e le specialità del posto, a dire il vero non c’è molto da scegliere e il vino non soddisfa neppure i due amici albanesi, così senza dire una parola Gjon si alza e sparisce. Poco dopo torna con una bottiglia del suo vino, lui ne va fiero e noi beviamo volentieri, poi ci parla della sua vita da camionista in Italia dove lavora per una ditta piemontese che non sempre lo paga, però giustifica l’azienda dicendo che in Italia c’è la crisi ed è facile perdere il lavoro, ma anche se così fosse lui ormai è Italiano e non tornerà in Albania. Parlare di lavoro e crisi non mi va, per cui cambio discorso chiedendo informazioni su cosa visitare in zona. L’amico di Gjon, che scopriamo essere il più importante commerciante di arredi della zona, prende la carta geografica dell’Albania e con la mano mostra un percorso che costeggia il lago e arriva fino alla citta di Krujë. Grazie alla traduzione di Gjon , ci spiega che lungo il lago potremo vedere dei caratteristici villaggi di pescatori , mentre a Krujë c’è un mercato dell’antiquariato dove è bello rovistare tra oggetti ricchi di storia. Consiglia poi di assaggiare il Koran del lago di Ohrid, una via di mezzo tra una trota e un salmone, detto anche il pesce della regina perché, secondo la leggenda, la Regina d’Inghilterra ne andava ghiotta e non poteva stare senza. “Di questi tempi”, dice contrariato l’amico di Gjon, “questo pesce è diventato raro per colpa dei Macedoni, che dall’altra sponda invadono le acque albanesi pescando di frodo”.
L’indomani seguiamo la strada consigliataci che percorre le sponde del lago e s’inoltra tra panorami antichi e bucolici, ma come spesso capita da queste parti è sterrata e la corriera che fa servizio di zona sembra non interessarsene sollevando una nuvola di polvere che si posa sulle case dei pescatori e sui loro Koran appena pescati.
Krujë, in Albanese, significa sorgente, ma qui è tutto secco e fontane non ci sono. Parcheggiamo la moto di fronte alla statua dell’eroe nazionale Giorgio Castriota, detto Scanderbeg, nominato dal Papa Eugenio IV. “Atleta di Cristo” per le sue straordinarie imprese di impavido difensore della civiltà occidentale contro i musulmani.
La città è dominata dal castello medievale caposaldo della resistenza contro i Turchi, la strada per raggiungerlo è quella dell’antico bazar derexhik. Spingo una porta in legno per entrare in un negozio dove anticaglie e cimeli storici mescolano l’impero Ottomano con quello degli Asburgo e l’impero coloniale italiano con la seconda guerra mondiale . Sfioro con le dita dei tromboni in ottone che pendono dal soffitto, poi colgo da un ripiano un’antica bilancia proveniente da un monastero ortodosso e un vecchio piatto in peltro con inciso il volto dell’eroe Scanderberg . Dentro una madia scopro delle monete antiche, la prima che raccolgo è araba, poi un soldo bucato e una moneta da due Lek del 1939 con scritto: “Vittorio Emanuele III Re d’Italia Imperatore d’Albania”. Tutti quegli oggetti, riposti alla rinfusa sulle scansie, sono la mappa del labirinto del tempo che la storia ripercorre senza saper trovare una via d’uscita.
L’ultimo negozio del bazar espone stoffe ricamate a mano. Rossana sa bene cosa scegliere e mostra al venditore una tovaglia in lino finemente ricamata: “Ha scelto bene signora è la migliore che abbiamo”, ma il prezzo è alto e Rossana è titubante mentre il negoziante vuole concludere l’affare: “Se foste Russi o Polacchi non discuterei sul prezzo, quelli hanno soldi nuovi, pagano e basta, ma voi siete Italiani, tra noi c’è sempre stata una buona intesa e poi dobbiamo aiutarci, per cui vi farò un prezzo speciale”. Così agli affari già fatti se ne aggiunge un altro.
Pacchi e pacchetti stanno appoggiati sul marciapiede e sulla sella della moto in attesa che si faccia spazio tra i bagagli. Durante il rito del carica e scarica la moto una copia di anziani turisti di Tirana mi chiede di scattare una fotografia che gli immortali davanti alla statua dell’eroe Giorgio Castriota, il principe che difese l'Abania dalle invasioni mussulmane, e proprio in quel momento dal vicino minareto il Muezzin inizia a diffondere la sua preghiera.
Fine seconda parte
Andrea e Rossana
A Est Il tour dei Balcani
3. Parte terza – Grecia
Capitolo primo - Lefkada
Sono passati più di trent’anni dall’ultima volta che ho varcato il confine della Grecia e da allora sono molto cambiato; altra moto e altro sorriso. Temevo che quelle terre arse e quelle baie solitarie non potessero più riconoscermi, così per non deludere i ricordi, ho seguito strade mai percorse fermandomi in luoghi che non conoscevo.
Il blu e l’azzurro si mescolano contrastando con il giallo dell’erba secca mentre, sotto il casco, ricordo parole: “Kalimera, kalispera” e poi: “lefteria”, libertà, la parola giusta per ricordare gli anni settanta, la moto, la tenda e nessuna meta da raggiungere.
Oggi abbiamo una meta, l’isola di Lefkada sulla costa ovest, nell’Epiro .
Al confine tra Albania e Grecia un auto carica di Macedoni vuole varcare la frontiera, ma il doganiere batte il pugno sul tetto e con la bocca spalancata grida al conducente di ritornare da dove è venuto, dei Bosniaci su un furgone capiscono che non è giornata e così le auto iniziano un carosello di retromarce causando un ingorgo. Noi restiamo seduti sulla moto a guardare questa commedia, quando il doganiere ci nota e sempre gridando chiede: “Italiani, documenti OK”, allora sventoliamo le nostre carte d’identità e lui : “OK, go, go”, gli faccio segno che non riesco a passare perché è tutto bloccato, in un attimo sposta dei tavolini e mi fa segno di salire sul marciapiede, non me lo faccio ripetere, vado.
La moto segue veloce le curve della strada che scendono verso il mare, Rossana ha nostalgia della Retsina e dell’insalata greca mentre odora il profumo delle piante aromatiche che riempie l’aria della Grecia.
Regoliamo gli orologi perché viaggiando verso est abbiamo superato un fuso orario. Attraversiamo Igoumenista, qui è tutto più europeo; gli automobilisti mettono la freccia a sinistra quando devono girare a sinistra e questo, dopo aver attraversata l’Albania, appare strano, quasi una vezzosa cortesia. Procedendo lentamente mi guardo attorno per trovare un bar con i tavoli bianchi e azzurri dove si serve l’Ouzo e il caffè turco, ma ora tutto è in regola con le normative UE e si possono finalmente bere aperitivi colorati durante l’ happy hour. Qui arrivano i traghetti dall’Italia è c’è un gran viavai di camper che sanno dove andare, mentre noi cerchiamo un po’ d’avventura.
Attraversiamo il ponte mobile che porta all’isola di Lefkada e poi, lasciando dietro di noi mura del castello di Levkas, seguiamo la strada lungo una lingua di terra che raggiunge l’isola, qui tutto sa di vacanze e divertimento, la città è bella, ma non è la nostra meta, per cui decidiamo di attraversare l’isola raggiungendo Vasiliki al capo opposto.
La strada si alza seguendo la costa, mostrando baie nascoste e inaccessibili, mentre - dove è possibile campeggiare più facilmente i camper occupano ogni pezzo di terra libero affollando le piccole spiagge. La pergola di una trattoria con vista sulla baia di Syvota attrae la nostra attenzione, una sosta è necessaria per un bicchiere di retsina e una ricca insalata greca con salsa tzatziki.
Il campeggio di Vasiliki è pessimo e costoso, la reception sembra ancora in costruzione, ma i segni del tempo mostrano che così era e così resterà. Due ragazzine addette a ricevere i campeggiatori ci degnano della loro attenzione solo dopo aver terminato le loro confessioni adolescenziali.
Il terreno è duro, senza erba e con poco riparo. I servizi igienici sono insufficienti , così si forma una lunga fila e nell’attesa si possono fare nuove conoscenze, ma poi gli ultimi fanno la doccia fredda.
La strada che dal campeggio giunge al mare segue il muro di una vecchia fabbrica sul quale c’è una scritta:” WE DONT FORGET SREBRENICA” firmato ANTIfa, ho lasciato da poco quei luoghi e difficilmente li scorderò. La spiaggia è di ciottoli in una ampia e ventosa baia ottima per il surf, ma non è quello che desideriamo. Dopo il tramonto girovaghiamo in sella alla moto alla ricerca di una trattoria e non tardiamo a trovarne una caratteristica dove mangiamo un ottimo mousakà e beviamo vino rosso e per finire una Metaxa 7. Finiamo la nostra serata con una passeggiata nel lungo mare di Vasiliki guardando i colorati negozi di souvenir che vendono per turisti cianfrusaglie a caro prezzo, poi facciamo sosta in un bar con divanetti similpelle e musica a palla. Tanto per non cambiare sapore ordiniamo ancora una Metaxa, che si rivela scadente e annacquata , mentre il prezzo è di gran livello.
Il nostro piccolo igloo verde ci ripara dall’umidità della notte e i sacchi a pelo tengono una piacevole temperatura, ma i materassini fanno schifo. Mi giro e rigiro, poi lo sgonfio, ma niente da fare , è sempre scomodo. Mezzanotte è passata, sto per addormentarmi quando un gruppo di scalmanati lancia inutili, e incomprensibili grida. Poco dopo passa una motoretta smarmittata, che mi sveglia più di un caffè ristretto, allora mi giro e rigiro e sgonfio ancora un po’ il materassino. Sono le due del mattino quando arrivano i netturbini , che ridendo fragorosamente rovesciano i cassonetti delle immondizie pieni di bottiglie di vetro, passa un’ora e arriva il secondo turno che carica altre rumorosissime immondizie nel camion, allora io e Rossana ci sediamo di scatto sui nostri scomodi materassini e, con gli occhi gonfi di sonno, commentiamo all’unisono: ”cazzo!”.
Alle sei e mezza siamo in piedi e alle sette in sella pronti a partire , quando i nostri vicini di tenda escono allo scoperto e stiracchiandosi chiedono: “Andate di già” , “Si”, rispondo io, “questo campeggio non fa per noi, partiamo verso il Peloponneso”. Sono una simpatica e giovane coppia di Milano e ci spiegano che loro ogni anno, per le vacanze estive, scendono a sud seguendo le autostrade italiane, poi prendono il traghetto ad Ancona e arrivano qui, perché gli altri campeggi hanno strade d’accesso molto rovinate e difficili da percorrere, poi sono più costosi, lontani dal mare e con servizi pessimi. Continuano spiegandoci che nell’isola ci sono molte baie e le più belle sono piuttosto affollate. Appresa la nostra provenienza friulana ci chiedono se abbiamo preso il traghetto da Venezia e ascoltando il racconto del nostro viaggio lui dice alla sua compagna: “Hai sentito? Loro hanno visto Sarajevo, il Montenegro, l’Albania e adesso vanno nel Peloponneso, noi per spostarci abbiamo bisogno di organizzarci almeno due giorni prima, e poi da anni che veniamo in Grecia non siamo stati nel Peloponneso” , la sua compagna lo interrompe : “Si, ma loro sono in moto, noi ci portiamo dietro la casa, più che una partenza è un trasloco”.
Partire riaccende la speranza di scovare l’antico spirito di conoscenza ed avventura, che animava i viaggi on the road degli anni settanta.
Capitolo secondo - Kardamili
La moto viaggiava leggera nell’aria bollente delle campagne dell’Epiro verso l’Arcadia, quando in quel panorama piatto vedo un chiosco su cui sventola la bandiera greca circondata da montagne di meloni, ad accoglierci un contadino greco muto. Per farmi capire afferro un melone, ma lui scuote la testa e toglie il frutto dalle mie mani, quindi fruga nel mucchio e poco dopo fa segno di aver trovato quello migliore, poi, come in un rebus, mette sulla tavola, il melone, un coltello e un foglio di carta con sopra scritto il numero 1947, e mima qualcosa che non riesco a capire. Credo di intuire che il numero 1947 possa essere il prezzo espresso in vecchie dracme, ma poi Rossana , più attenta ai gesti, intuisce che quel numero riguarda il coltello e la soluzione è: “per tagliare i meloni uso questo coltello dal 1947”, l’enigma è risolto e la data è importante, quella della Guerra civile Greca. Il premio per aver capito consiste in una pacca sulle spalle, una cassetta dove sederci e un po’ di sale di mare per insaporire le fette di melone.
Bruciato dal sole, seduto su una cassetta al bordo di questa strada, che attraversa una campagna fatta d’ erba gialla e cielo azzurro, mi sembra ancora di sentire la voce del vecchio amico Antonio che, trentacinque anni fa, giunti a Kamiros Skala, c’invitò a mettere la tenda nel suo frutteto e poi la voce dei pescatori, che la sera prepararono per noi la zuppa con la testa del pesce spada.
Il ponte Charilaos Trikoupis attraversa il golfo di Corinto e con un balzo alto 164 metri e lungo 2.883 unisce la Grecia continentale al Peloponneso, a guardarlo da qui sembra leggero come un filo sul mare. Attraversiamo l’Arcadia per raggiungere Kalamata nel golfo Messiniaco in Laconia a pochi chilometri da Sparta, per poi seguire la penisola della Maina. Le case bianche con le imposte azzurre lasciano il posto alle case-torri e ai castelli franchi. Qui la Grecia si fa più selvaggia e rude, il blu e il giallo fanno posto al grigio della pietra , mentre, gli ulivi con la loro ombra riparano i cani randagi.
Prima di partire , un amico di ritorno da Atene mi aveva riferito, che la morsa della crisi economica aveva costretto i Greci a chiudersi in casa evitando qualsiasi spesa superflua, niente vacanze, niente cenette con gli amici e neppure aperitivo al bar, ma noi dobbiamo bussare a cento porte prima di trovare una stanza libera, perché i Greci sono tutti qui e noi con loro, a bere Ouzo appollaiati sulla terrazza di questo bar di Kardamili guardando il sole che tramonta in mare.
Capitolo terzo - Elafonisos
Oggi viaggiamo lentamente, senza casco per sentire l’aria sulla faccia e l’odore dell’ origano e del finocchio selvatico, mentre il sole brucia la fronte. Seguiamo la strada lungo il mare, poi verso l’interno attraversando la penisola della Maina per giungere a Githio, dove ci fermiamo a pranzare in un locale sul mare, arredato come un galeone pirata, in compagnia di un pappagallo che ad ogni voce risponde: “Parakalò”. Uscendo dalla città la strada sale mostrando piccole insenature per poi aprirsi alla vista di una grande spiaggia dove sonnecchia il relitto di una nave incagliata. La tentazione di fermarsi è molta, ma poi vediamo che gli spazzi dove montare la tenda sono già occupati da camper a cui manca solo il recinto e la cassetta della posta per potersi definire una stabile residenza, così proseguiamo verso la nostra meta con l’intenzione di arrivare prima di sera.
Quando arriviamo a Vikglafia il traghetto per Elafonisos sta per mollare gli ormeggi, facciamo appena in tempo ad acquistare i biglietti e ad imbarcarci che prendiamo il largo verso la nostra meta.
Durante la breve traversata ammiriamo la bianchissima sabbia del fondale e il mare talmente trasparente e azzurro da far sembrare la barche sospese anziché galleggianti.
Sbarcati sull’isola ci rivolgiamo all’ufficio turistico per trovare una stanza libera, ma senza successo, così cominciamo a vagare attraversando le strette vie del paese per bussare alle porte dove si affittano stanze, la risposta è sempre la stessa: “ E’ alta stagione, è tutto occupato”. Mentre percorriamo lentamente il lungomare, ormai rassegnati ad accamparci, dalla porta di un negozietto, colmo di souvenir marinareschi, compare un’anziana signora, che intuendo la situazione fa cenno di fermare, poi ci osserva attentamente e dice: “Room free”, avevamo perso le speranze, così quella parola sembra magica e senza discutere accettiamo. Con i pesanti bagagli in mano cominciamo a salire le ripide scale in legno, rigorosamente dipinte in bianco e azzurro, che conducono all’ultimo piano di una vecchia casa sul mare. Il ragazzone che ci fa strada non ha intenzione di aiutarci nel trasporto delle valige e in silenzio resta immobile sul pianerottolo ad aspettare la vecchia, che con una grossa chiave apre la porta di un appartamento arredato in stile marinaresco con mobili più vecchi che antichi e poi inizia a discutere d’affari: “Ottanta euro a notte, minimo due notti” , io replico che è più caro dell’albergo e che non può imporci due notti, ma lei neppure mi ascolta, apre la porta che accede ad una terrazza adornata con tende leggere colorate di giallo e invitandoci a guardare verso il mare dice: “Questo panorama non ha prezzo, nessun albergo può venderlo. Ha ragione, da qui si vede tutta la baia e il sole che tramonta in mare, poi aggiunge: “ Vedete quel tavolino sulla spiaggia con sedie e ombrellone, è il vostro, potete usarlo quando volete” . La vecchia ci sa fare e sa che non si può restare indifferenti allo spettacolo naturale che la Grecia offre e qui siamo in prima fila.
Al calar del sole, dalla chiesuola all’entrata del porto arriva il suono della campana mentre un presbitero ortodosso, con barba e capelli incolti, si sistema il saio affrettando il passo per arrivare in tempo alla funzione religiosa. Il viale sul lungomare s’anima di turisti che i ristoratori invitano ad accomodarsi su a tavoli imbanditi sistemati sul bagnasciuga, così noi accettiamo l’invito e con i piedi sulla sabbia ordiniamo pesce alla griglia e vino bianco. E’ tutto molto romantico, lo sciacquio delle onde e pure la luce delle candele, ma il menu non riporta i prezzi e il conto arriva su un indecifrabile pezzetto di carta, alla richiesta di chiarimenti arriva una ragazza scalza con in mano i digestivi offerti dalla casa e con un sorriso incassa il conto senza altro aggiungere. E’ una bella serata e in fin dei conti non abbiamo pagato molto, siamo anche fortunati perché ora c’è la fila per cenare, mentre noi possiamo ritirarci sulla nostra terrazza a guardare le lontane luci delle barche da pesca bevendo Ouzo.
La notte è calda e le finestre aperte danno libero accesso alle zanzare, che silenziosamente ci infliggono il tormento; è guerra aperta in piedi sul letto con l’asciugamano per arma, così, però, è anche una guerra persa, per cui passiamo alle difese chimiche spalmandoci pomate e spruzzando nuvole di spray finché l’ultima zanzare batte in ritirata.
Non sono ancora le sette di mattina, quando stiracchiando le braccia mi accorgo che Rossana s’è già alzata, allora vado sulla terrazza e guardando verso il mare la vedo nuotare nella luce dell’alba. La spiaggia a quest’ora è deserta e il nostro tavolino bianco e azzurro è pronto per la collazione, poi inforchiamo la moto e con il solo telo da mare sul portapacchi andiamo alla ricerca di spiagge incontaminate. Il nostro girovagare s’interrompe , appena percorsi cinque chilometri , di fronte alla spiaggia di Simos. Dopo qualche tentativo di insabbiamento lasciamo la moto all’ombra di un cedro e ci avviamo a piedi oltre le dune dove nascono spontanei gigli di mare. La sabbia è bianchissima e il mare è azzurro e blu talmente trasparente da non comprenderne la profondità, la spiaggia è molto grande ed è frequentata ma non affollata. Sulla riva c’è una fila di ombrelloni di stile caraibico e, osservando quello che fanno gli assidui bagnanti, capiamo che è possibile prendere posto sulle sdraio per poi attendere il guardaspiaggia e pagare il servizio, così facciamo, ma l’addetto ritorna sui suoi passi e , piuttosto contrariato, restituisce a tutti quanto pagato spiegando che oggi è gratis. Chissà cosa sarà successo e chissà quale mistero incombe sulla gestione di questa incantevole spiaggia.
Viaggiando di luogo in luogo non è possibile ottenere un’abbronzatura perfetta e così ben rosolati al sole dopo aver attraversato la baia a nuoto, sul calar del sole facciamo ritorno alla nostra dimora scoprendo allo specchio di non avere più sembianze umane, vediamo invece l’immagine di due demoni infuocati. Durante la passeggiata serale anche i commercianti s’accorgono del nostro fiammante colorito , di conseguenza si prodigano ad offrici unti e miracolosi rimedi fatti d’olio d’oliva, che, una volta spalmati, danno più l’idea di una preparazione alla frittura che ad una pronta guarigione.
Guardando la scia del traghetto allontanarsi dall’isola penso che qualche giorno in più avrebbe trasformato il nostro rossore in una invidiabile abbronzatura e che il nostro viaggiare non incontrerà più Elafonisos.
La nostra rotta da navigatori di terra è ora verso nord, riattraversando il Peloponneso, poi lo stretto di Corinto verso l’attica e la Grecia centrale, per raggiungere , nella pianura della Tessaglia , le Meteore che in Greco letteralmente significa: “In mezzo all’aria”.
Capitolo quarto– Μετέωρα (Meteora)
Attraversando l’arida Tessaglia incontriamo numerosi greggi di pecore e vediamo coltivazioni di ortaggi irrigate da pozzi, poi la monotonia della pianura è rotta dal levarsi improvviso di nere guglie montuose. Arriviamo a Kalambaka che è sera e imbocchiamo la strada che s’inerpica verso le Meteore con la speranza di trovare una locanda per pernottare.
All’ingresso della pensione un cartellone che porta la data del 25- 27 aprile 2014 invita i motociclisti al moto raduno: “Meeting Area Mediterranea”, sul cartellone ci sono i nomi dei club e le firme di chi ha partecipato e il gruppo più numeroso è quello dei “Guzzisti” I italiani. Il gestore ha già acceso la griglia e non facciamo in tempo a scendere dalla moto, che ci mostra quella che a breve sarà la nostra cena, poi si rivolge a noi parlando in tedesco e quando scopre che siamo Italiani si meraviglia che non abbiamo una Moto Guzzi , allora provo a spiegargli che nel 1978 eravamo già stati in questi luoghi proprio con una Guzzi 850 T, ma lui ci guarda con l’espressione di chi non ha capito e risponde: “Italiano Greco, una faccia una razza ”, è l’espressione italiana più conosciuta in Grecia ed è usata dalla gente del posto per esprimere la loro simpatia verso gli Italiani, ma in Italia questo detto è sconosciuto anche se pare che sia stato inventato dal governo fascista per convincere i greci che i due popoli sono fratelli e quindi favorire la collaborazione durante l’occupazione.
L’atrio dell’ albergo è arredato con oggetti sacri e le immagini dei monasteri che, come nidi d’aquila, stanno sulle cime delle guglie rocciose. Le Meteore sono il luogo sacro dove i monaci ortodossi hanno eletto le ripide pareti delle montagne ad elevazione spirituale. Sospesi su nere torri di roccia i monaci hanno costruito il loro ascetico microcosmo . Da prima gli eremiti vivevano dentro a grotte nei fianchi dei dirupi, poi una comunità di asceti costituì uno stato monastico e costruì dei monasteri inaccessibili per difendersi dalle invasioni dell’impero ottomano. Oggi in Grecia dell’Islam non restano che tracce dopo che nel 1923 i Cristiani provenienti dall’Anatolia si trasferirono in Grecia, mentre i greci di fede islamica furono trasferiti in Turchia, ; questo esodo coinvolse più di due milioni di persone.
La strada sale aprendo al metafisico paesaggio di questa “foresta” di pietra, per poi scendere verso valle fiancheggiando i monasteri.
Il nostro viaggio in Grecia sta terminando, attraversiamo la Macedonia per ritornare in Albania ed arrivare verso sera al lago Ohrid, ma di questo ho già raccontato nella seconda parte, per cui con una immaginaria smanettata raggiungerò la città costiera di Ulcinj in Montenegro.
4. Parte quarta- la costa del Montenegro e della Croazia
E’ martedì ventisei agosto quando arriviamo ad Ulcinj accolti dal richiamo del Muezzin alla preghiera delle ore diciannove. Il caos del traffico, le molte targhe di turisti albanesi e bosniaci ci fanno capire che difficilmente troveremo da pernottare, così dopo una breve ed infastidita ricerca, abbandoniamo la città per trovare una sistemazione più tranquilla. Il primo posto che incontriamo puzza di fritto e immondizie e per quanto offre è anche caro, allora seguiamo un ‘ indicazione per una pensione che ci conduce lungo una vertiginosa discesa tra arbusti marittimi per arrivare alla locanda “Alla Vongola” posta a picco sul mare. Le porte sono chiuse e dopo diversi tentativi per richiamare l’attenzione arriva il gestore, un uomo alto e allampanato che trascina delle ciabatte mal calzate; chiedo se c’è posto e questo risponde alla mia domanda chiedendomi quanti giorni intendo fermarmi, quando apprende che la nostra intenzione è di fermarci una sola notte scuote la testa e rientra, poi riappare da una finestra e dice che se proprio vogliamo , per una notte costa ottantacinque euro senza colazione. Non ha ancora finito la frase che stiamo già inerpicandoci lungo quella che ora è una vertiginosa salita. Mentre la moto spinge con forza da una casa esce una signora e grida: “Italiani, camere libere” , le stanze sono nuove e pulite e le persone sono semplici ed accoglienti, per una notte va benissimo e bastano venticinque euro.
La mattina abbandoniamo il nostro ripido viottolo e proseguiamo verso Kotor lungo la strada costiera, scoprendo che la zona in cui ci siamo fermati si chiama Polje. Il traffico è lento, ma non ci si annoia perché dietro ogni curva c’è un nuovo paesaggio e il panorama cui non possiamo rinunciare è quello dell’isola di Sveti Stefan, un piccolo agglomerato fortificato di vecchie case appiccicate ad un isola rocciosa unita alla terra ferma da una lingua di sabbia, ma è meglio ammirarla dalla costa perché ad entraci si scopre che questo promontorio, un tempo covo di pirati, oggi è un grande albergo diffuso.
Nel porto di Kotor sono ormeggiate delle navi da crociera che scaricano turisti e nel piazzale antistante arrivano decine di corriere che aumentano il flusso dei visitatori e nel parcheggio ci sono anche molte moto provenienti da tutta Europa alle quali uniamo anche la nostra. Le imponenti mura che difendono la città si aprono ai visitatori con un medievale portone che da cui si accede alla città. L’architettura è tipicamente veneziana, d’altronde tutte le cittadine della costa, isole comprese, da qui fino in Italia ricordano il dominio veneziano. Le fortificazioni di Kotor devono essere costate molto tanto che a Venezia si dice ancora di una donna troppo pretenziosa: “Te me costi come i muri de Cattaro”.
Seduti al tavolo di un bar nella piazza della chiesa guardiamo il variegato via vai dei turisti accompagnato dalla musica di due artisti di piazza; passa un gruppo di giapponesi attrezzati con ombrellini parasole e macchine fotografiche, poi una banda di biker che gronda sudore dai giubbini in pelle e un gruppo di tedeschi con gli immancabili sandali e calzetti bianchi.
Avevamo qualche timore nel lasciare moto, bagagli e caschi incustoditi, ma quanto torniamo è tutto in ordine. Lungo la strada, dopo pochi chilometri da Kotor , ci fermiamo in un Hotel per trovare una stanza, il fabbricato è un grande scatolone di cemento armato grigio, con le vetrate coperte da escrementi di gabbiani ormai diventati guano, sulla porta d’ingresso s’intravvede una stella in rilievo che, al tempo della ex Iugoslavia, immagino fosse rossa. E’ Rossana ad inoltrarsi nella reception, mentre io resto seduto sulla moto ad osservare il portiere dell’albergo che indossa una logora divisa nera. Dopo pochi istanti Rossana esce tenendosi il naso chiuso con le dita e commenta: “Le stanze sono libere e il prezzo è basso, ma è meglio non parlare della pulizia e andarcene subito”.
Continuiamo il nostro girovagare lungo la strada che costeggia le Bocche di Cattaro guardando il paesaggio fatto di alte montagne grigie che scendono a picco nel mare blu. Passato il villaggio di Prcanj troviamo una stanza con cucina in affitto. Sistemati i bagagli e indossati i costumi da bagno attraversiamo il giardino per scendere in mare, ma appena entrato in acqua ho l’impressione di essermi gettato in un torrente tanto l’acqua è fredda, questo perché dalle montagne che circondano il paese sfociano numerosi ruscelli che raffreddano il mare. Lasciando alle spalle la riva del mare bastano pochi passi per inoltrarsi in un ambiente montano, così la sera ceniamo in una trattoria arredata in stile alpino sulle rive di un torrente.
A & R
Parte quarta Croazia
Capitolo secondo –L’isola di Hvar
Possiamo dedicare ancora due giorni al nostro viaggio e siccome la costa della Croazia la conosciamo decidiamo di raggiungere l’isola di Hvar.
La strada costiera è perfetta da percorrere in moto ed è necessaria una sola sosta per ammirare Dubrovnik, poi il nostro viaggiare continua senza difficoltà fin quando incontriamo una incomprensibile fila d’auto, che ci costringe a un lento sorpasso fino all’origine della coda e li scopriamo che la causa dell’intasamento è un piccolo confine dove la Bosnia penetra la Croazia spaccandola in due.
Il Traghetto parte alle tredici da Drvenik , abbiamo un ‘ ora per ingozzarci di ćevapčići, patatine fritte e salsa ajvar, poi una mezza pinta di birra per mandar giù il pranzo e imbarcarci al levare dell’ancora.
Mezz’ora di navigazione e sbarchiamo a Sućuraj. Le auto partono veloci dando l’idea di saper dove andare, noi invece sostiamo sulla banchina del porto per studiare la mappa e decidere la direzione da prendere. La strada è una e, mantenendosi alta sulla costa, attraversa da un capo all’altro l’isola, poi altre vie segnate sulla carta geografica come sentieri conducono al mare.
Avanziamo lentamente esplorando l’isola e annusando l’aria che sa di pini, di menta e di salvia. Dalle piazzole panoramiche si possono scorgere i sentieri che portano a piccole baie, ma quelle accessibili sono utilizzate dai clienti di affollatissimi campeggi o di esclusivi Hotel. La nostra ricerca del luogo ideale dove dimorare ci spinge oltre metà isola. Superata la località di Zastražišće, scorgo un cartello che invita a seguire per quattro chilometri un sentiero che conduce a una pensione.
Muretti di pietre a secco delimitano il confine tra le proprietà degli uliveti mentre la strada fatta di ciottoli scende ripida verso il mare. L’ultima curva, stretta a gomito, precipita come una rampa in un piazzale in terra battuta, dove una gran quantità di fichi, avvolti da una nube di vespe, è messa ad esiccare sopra delle graticole. Lasciamo la moto parcheggiata e scendiamo lungo una scaletta in pietra che costeggia l’orto giungendo alla pensione posta a picco sul mare. Ad accoglierci due giovani e belle sorelle, che senza esitare chiamano il padre, un tipo piuttosto tracagnotto e sbrigativo, che ci mostra la camera e consegna le chiavi, chiarendo in uno stentato italiano: “almeno due notti, settanta euro a persona mezza pensione, ore sette mattina colazione, ore sette sera buona cena anche pesce” . C’è poco da discutere, prendere o lasciare, per cui prendiamo. La camera ha un terrazzino che sporge sul mare e una bellissima vista sulla costa.
Il trasporto dei bagagli risulta difficoltoso sia per la scomodità delle strette scale, sia per l’assalto delle vespe che vorrebbero riposare sulla nostra moto.
Un bagno in mare con pinne ed occhiali è necessario, poi aspettiamo la sera distesi sulla sdraio in compagnia di una birra bionda. Alle diciotto e trenta, vedo affacciarsi dal muro della pensione il solerte locandiere che scampanellando ci invita a cena; così, di fretta, rientriamo nella nostra stanza per una doccia e cambio di vestiti, meno di dieci minuti e la zuppa già fuma sul nostro tavolo. Di fronte a noi una numerosa famiglia di tedeschi , la moglie mangia solo verdure, i tre figli sono impegnati con l’ iPad, mentre il marito racconta qualcosa di divertente al gestore che ridendo e commentando mostra di conoscere la lingua tedesca. Sull’altro tavolo una coppia di novelli sposi inglesi fa un brindisi incrociando i bicchieri, hanno l’espressione felice e romantica anche se la loro pelle ha assunto un colorito rosa intenso non si lamentano e salutano il sole ancora alto. Verso sera due barche a vela buttano l’ancora nella baia ed aspettando il tramonto loro “guardano” noi e noi guardiamo loro, poi è ora d’andare a letto.
Non sono ancora le sei di mattina e siamo svegli, la colazione è già pronta e il locandiere si complimenta per quanto siamo mattinieri; poco dopo arriva la famiglia tedesca, la moglie beve tè verde, i figli ingurgitano quel che c’è giocando con l’iPad e il marito si fuma un sigaro, gli sposini inglesi invece tardano.
Sto sdraiato al sole, poi mi giro a pancia in giù, è passata meno di un ora dalla colazione e, mandate al diavolo le salutari norme sulla digestione, mi tuffo in acqua e faccio una lunga nuotata, poi torno sulla sdraio a rigirarmi. Scrutando la costa con il cannocchiale vedo i due sposini inglesi camminare lungo un sentiero che tra pietre e rovi porta alla baia vicina, li scorgo arrampicarsi sul più alto degli scogli e poi con coraggio lui si butta, ma lei tentenna e così lui ripete l’esempio più volte, finché, presa per mano, anche lei si tuffa e con un gran urlo precipitano in acqua, resto in apprensione finché non riemergono ed è in quel momento che dalla pensione si leva un applauso.Sono le dieci del mattino e ho già fatto tre bagni e altrettante volte mi sono spalmato di abbronzante, se continuo con questo ritmo per l’ora della cena avrò fatto dodici bagni e finito il barattolo di crema, comincio ad annoiarmi, neppure i tuffi a bomba degli sposini inglesi riescono ad attrarre la mia attenzione, è necessario un giro in moto e Rossana è d’accordo.
Partiamo leggeri, calzoni corti, T-shirt Ural, sandali e casco; Rossana sta alla larga mentre scaccio le vespe, poi a motore caldo sale ed affrontiamo la salita con un buono spunto , quando la curva a gomito mi costringe a sfrizionare e riaprire di colpo il gas, cosa non gradita alla dolce zavorrina che, non proprio con un sussurro, mi dice: “ Allora dimmelo prima, così salgo a piedi”. Proseguiamo con una piacevole andatura turistica, godendoci qualche ampio curvone, per poi perderci nelle strette vie della piccola città di Havar.
Parcheggiamo la moto e avviandoci verso il centro scopriamo calli in stile veneziano e muri di pietra, nelle cui fessure, crescono rigogliose piante di capperi, poi negozi d’artigianato per turisti e trattorie con menù di pesce a tutte le ore e in ogni stagione, sul molo c’è un mercatino dove si vende bigiotteria fatta a mano e maglioni casalinghi in pura lana. Dalle barche ormeggiate proviene una voce che invita a fare il giro dell’isola compreso pranzo con musica folcloristica, noi seduti al tavolo del bar del porto beviamo una birra e stiamo a guardare.
Ancora qualche bagno con pinne ed occhiali e ancora sole e crema abbronzante, poi puntuale alle diciotto e trenta squilla la campanella della cena. Questa sera la lista prevede zuppa di pesce, spigola alla griglia e malvasia bianca; gli sposini inglesi sono i primi ad arrivare, poi i tedeschi e in ritardo un numeroso gruppo proveniente dalle barche ormeggiate in rada.
Sorseggiando l’ultimo bicchiere di vino ammiriamo il sole che tramonta e le sorelle che sparecchiano le tavole, mentre il capitano di una barca va e viene con un piccolo tender per riportare il gruppo sotto coperta.
Questa mattina abbondante collazione perché la cena la faremo arrivati a casa. La nostra tavola è già imbandita e imburrando il pane tostato salutiamo le barche mentre levano l’ancora prendendo il largo. Come ogni mattina arrivano le vespe ad assaggiare le marmellate e premurosa arriva anche una delle sorelle portandoci uno stoppino imbevuto di qualche sostanza tossica, che bruciando rilascia un denso e pestifero fumo nero, ma non scaccia i fastidiosi insetti. La marmellata preferita dalle nostre sgradite commensali è quella di ciliegie, per cui la migliore delle soluzioni per liberarsene è quella di farle accomodare alla fine del tavolo lasciandole far baldoria con eccessi di zuccheri.
La moto è carica, non resta che pagare e partire. Come da accordi il costo è di cento quaranta euro, ma noi abbiamo cambiato in moneta locale, così, con uno smagliante sorriso di commiato, porgiamo al gestore mille e settantasette Kune, come stabilito dal prezziario, ma questo non ricambia il sorriso e dice “No euro ? In Kune pagare mille cento e sessanta”. Dopo breve, ma intensa discussione paghiamo dieci euro in più, a quanto pare, sia che paghiamo in euro che in moneta locale, la turistica fregatura del cambio valute è inevitabile.
Alle nove parte il traghetto e già mezz’ora prima s’è formata una lunga coda di “autoscatole” stracariche di bagagli e con traini ingombranti. All’imbarco mi fanno infilare la moto di traverso in un piccolo spazio vicino alla gomene, dove, a causa del mare agitato la moto non sta ferma e così devo restare in sella godendomi gli spruzzi delle onde che s’infrangono a prua.
Seguiamo la costa croata fino a Makaraska e alle undici del mattino imbocchiamo l’autostrada che ci condurrà per seicento chilometri fino a casa. Casco chiuso, corsia di sorpasso, si va veloci fin quando il brillare di luci rosse e delle quattro frecce trasforma l’autostrada in un chilometrico parcheggio. Con la frequenza periodica di un pendolo il traffico si blocca comprimendosi come una molla per ripartire all’improvviso. Passiamo accanto ad auto stracariche, a camper su cui si vedono bambini con i nasi schiacciati contro il vetro, a corriere dove la gente dorme oppure canta; poi qualcuno scende e si stiracchia, altri fanno pulizia, mentre noi procediamo come in una gimkana evitando portiere che si aprono, pulizia di portacenere e i visi scuri di chi ci vorrebbe fermi in coda.
Il viaggio è finito.
Fermo per l’ultimo pieno di benzina, sto seduto sul marciapiede, con un toast in una mano e un succo di frutta nell’altra, guardando distrattamente una mamma che cambia il pannolino al bimbo e un papà che rovista nel caos dei bagagli, mentre nella mia testa si sovrappongono ricordi e immagini di strade che scendono verso il mare tra tornanti e ampie curve, poi stretti sentieri in bilico su profondi canyon che attraversano boschi inesplorati ed ancora la polvere delle strade sterrate e la voce del muezzin.
Abbiamo viaggiato e capito che oggi l’esplorazione riguarda più l’umanità che il territorio, allora mi torna in mente l’albergatore sbrigativo, la vecchia astuta, il contadino muto che con il silenzio racconta un pezzo di storia greca, gli Albanesi un po’Italiani; poi il gestore dell’ostello che saluta a mani giunte e la locandiera secca che accenna un sorriso, ma non potrò dimenticare quella scritta sul muro di Sarajevo:
“I’m your best friend - I kill you for nothing – Bosnie 94”.
Rossana e Andrea
agosto 2014